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Teologia luterana antisemita |
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Precedenti: Luterani antisemiti |
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Pagina senza alcuna pretesa di esaustività o di imparzialità: link e commenti blu sono miei (CzzC)
Raccolti in volume i testi della polemica che negli anni Trenta oppose l’ebreo Martin Buber al protestante Kittel, sostenitore di un antisemitismo “biblico” che raccomanda agli Ebrei di comportarsi come persone “perbene”, se vogliono guadagnarsi un trattamento come esseri “relativamente inferiori” e non più come “assolutamente inferiori”. |
Traggo da Avvenire 25/03/2014 p23
Come STRANIERI gli ebrei sotto Hitler
MARCO RONCALLI Un teologo ed esegeta protestante, noto professore di Nuovo Testamento, ideatore e curatore di un importante dizionario (il Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament arrivato in edizione tedesca a dieci volumi). E un pensatore ebreo di origine viennese, fiero della propria identità, forse il più famoso dopo la morte di Hermann Cohen anche grazie alle sue opere sul chassidismo. E cioè: Gerhard Kittel e Martin Buber. Sono loro i protagonisti della disputa svoltasi fra il luglio e il dicembre del 1933, a proposito degli ebrei in Germania e del loro futuro: un confronto ora ricostruito nella sua completezza da Gianfranco Bonola nel volume La questione ebraica. I testi integrali di una polemica pubblica (Edizioni Dehoniane Bologna, pagine 170, euro 13,50).
Tutto inizia quando Kittel manda a Buber il suo Die Judenfrage uscito nel luglio ’33 chiedendogli un commento pubblico. Come ha sintetizzato Emil L. Fackenheim nel suo Un epitaffio per l’ebraismo tedesco (Giuntina, 2007) «Kittel aveva scritto che se gli ebrei, ridefiniti dalla rivoluzione nazista degli “ospiti”, si fossero comportati come persone “perbene”, sarebbe giunto il tempo in cui sarebbero stati trattati come esseri “relativamente inferiori” e non più come “assolutamente inferiori”. [CzzC: prova ad immaginare con che fregola i luterani di oggi e i loro amici massoni brandirebbero contro il papato un eventuale teologo papa-succube che avesse scritto queste bestialità contro gli ebrei perseguitati dai nazisti; si scusano col fatto che i luterani non hanno un papa che corregga gli errori dei loro teologi? Bella scusa per chi accusasse i vescovi cattolici di essere papasuccubi, rivendicasse virtuosa l’indipendenza dei suoi pastori da un papa, eleggesse papessa una pastora che poi viene fermata per guida in stato di ebbrezza]. Per farla breve: Kittel era un nazista. Buber replicò pubblicamente, ma con toni gelidi…». Andò proprio così? Ognuno trova la sua risposta leggendo oltre alla prima edizione del libretto kitteliano, il primo commento buberiano, la seconda edizione di Die Judenfrage – rielaborata e accresciuta di due appendici (“Risposta a Martin Buber” e “Chiesa ed ebreo-cristiani”) – uscita nel ’33 e ripubblicata senza variazioni nel ’34, come pure la seconda replica di Buber oltre alle reazioni, documentate, di Rudolf Bultmann, Ernst Lohmeyer, Hans Philipp: testi tutti raccolti nel volume curato da Bonola.
Al centro della querelle vi sono le condizioni di vita del ger, lo straniero che in epoca biblica viveva in mezzo al popolo d’Israele, ritenute paradigmatiche per stabilire l’atteggiamento cristiano nei confronti degli ebrei che in quel periodo avevano assunto il ruolo di “stranieri” nella società tedesca: una società cristiana, dunque, per Kittel, sottoposta all’autorità della parola biblica. Una diatriba dotta, che scandagliava il Pentateuco per determinare i diritti del ger in seno al popolo ebraico ospitante, e che dopo essere stata capovolta, diventava questione di stretta attualità, cruciale dopo l’ascesa di Hitler. Nettamente diversa la prospettiva buberiana non ignara dei supporti presuntamente biblici al ruolo destinato agli ebrei dal Terzo Reich, al quale l’interlocutore iscritto dal 1° maggio al Partito nazionalsocialista (e lo rimarrà sino alla fine della guerra) e al blocco religioso fiancheggiatore (i “Cristiani Tedeschi”, dai quali invece dissentirà mesi dopo) è tutt’altro che estraneo. Tuttavia, scrive Bonola, il giudizio degli studiosi su Kittel non è unanime, accogliendo alcuni autori, almeno in parte, le sue autogiustificazioni del ’46: secondo le quali il suo era un tentativo, nel 1933, di aprire una strada alla giustizia e all’umanità a partire dalla tradizione paleocristiana e veteroecclesiastica di fronte alla montante propaganda antisemita. Insomma, si sarebbe trattato del tentativo di influenzare l’impianto della politica nazionalsocialista verso gli ebrei per mitigarne i tratti violenti. [CzzC: credere al suo senno di poi o di prima?]. A parte il fallimento di questa eventuale strategia, l’esame di Die Judenfrage, sorvolando sulla proposta circa un regime giuridico speciale, il “diritto del forestiero”, colloca Kittel sul fronte ideologico del più bieco antisemitismo. La convergenza fra le opinioni del teologo e i più diffusi stereotipi antiebraici usati da Hitler al varo delle prime misure discriminatorie è totale. Balza poi agli occhi la sproporzione, nello scritto, tra l’intento inizialmente dichiarato di muoversi contro l’ebraismo «dal terreno di un cristianesimo consapevole» e la successiva trattazione del problema che solo nelle ultime pagine tocca la dimensione religiosa, dopo aver dedicato il pamphlet ad attaccare «l’ebraismo dell’assimilazione, depravato e divenuto infedele alla sua propria missione, scollegato ormai dalla storia dell’autentico ebraismo».
Più interessante accennare al cuore delle risposte buberiane, tese non solo a smontare le distorsioni insultanti con cui Kittel affronta l’ebraismo, o a impedire di utilizzare in senso antiebraico la frattura che l’ipotesi sionista aveva introdotto nelle comunità ebraiche, ma, restando sul versante religioso, ad accusare Kittel di volere considerare operato divino misure discriminatorie tutte umane. Con ironia Buber si chiede perché l’interlocutore si leghi a pochi passi concernenti unicamente il piano giuridico, prescindendo dai moltissimi altri in cui il cristianesimo richiama la sua legge: quella dell’amore.
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Le tesi dell’esegeta si basavano sulle norme che il Pentateuco riserva al «ger», il non-israelita insediato nella comunità.
Lo stesso trattamento sarebbe stato destinato ora agli ebrei in una società cristiana. Ma la soluzione portava all’antisemitismo. |