IMU e non profit, legge 174
per quanto riguarda gli enti non commerciali si dovrà indicare «gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale, nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui alla lettera i) del comma 1 dell’art. 7, d.lgs. n. 504/1992, come svolte con modalità non commerciali».
[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 29/04/2022; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]
Pagine correlate: ONLUS Odv e simili, sussidiarietà, vuolsi soffocare, solidarietà, volontariato; sentenza cassazione
↑2012.10.11 Trassi da Persona e danno IMU E NON PROFIT
Di Alceste Santuari
L’art. 9, comma 6, dl. 10 ottobre 2012, n. 174, pubblicato sulla G.U. n. 237 del 10 ottobre 2012, contempla una modifica importante all’art. 91-bis, comma 3 del d.l. 1/2012, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 27/2012, laddove – allo scopo di superare le obiezioni di metodo normativo che il Consiglio di Stato ha sollevato nel suo parere dd. 4 ottobre 2012, si stabilisce che l’emanando regolamento del Ministero dell’Economia, per quanto riguarda gli enti non commerciali, dovrà indicare “gli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale, nonché i requisiti, generali e di settore, per qualificare le attività di cui alla lettera i) del comma 1 dell’art. 7, d.lgs. n. 504/1992, come svolte con modalità non commerciali”.
Stando alle prime indiscrezioni a mezzo stampa circa i contenuti del regolamento in parola, il Ministero sarebbe intenzionato a prevedere quanto segue allo scopo di esentare gli enti non lucrativi dal pagamento dell’IMU sulle attività non commerciali:
- la modifica degli statuti degli enti non commerciali per adeguarli ai requisiti di cui sotto entro il 31 dicembre 2012;
- divieto di distribuzione degli avanzi di gestione, anche in modo indiretto;
- obbligo di reinvestimento degli eventuali utili conseguiti;
- obbligo di devolvere, in caso di scioglimento, il patrimonio dell’ente non commerciale ad altro ente non profit che svolta un’attività analoga;
- le attività assistenziali e attività sanitarie si ritengono non commerciali se:
- sono accreditate o contrattualizzate o convenzionate con enti pubblici
- sono svolte in “maniera complementare o integrativa rispetto al servizio pubblico”;
- sono svolte a titolo gratuito o contro il pagamento di rette “di importo simbolico e, comunque, non superiore alla metà di quello medio previsto per le stesse attività convenzionate svolte nello stesso ambito territoriale.
Per quanto riguarda le strutture ricettive, il regolamento prevede che non trattasi di attività commerciale se l’accesso è limitato ai soggetti dell’attività istituzionale o della “ricettività sociale” (soggetti svantaggiati per condizioni fisiche, economiche, politiche, ecc.).
Infine, per quanto concerne le attività culturali, ricreative o sportive, esse potranno risultare non commerciali qualora risultino svolte a titolo gratuito e con il versamento di un compenso simbolico.
Rinviando ad un altro contributo di Persona e Danno sul tema, che non solo è complicato ma foriero di numerosi dubbi circa la sua applicabilità, in questa sede intendiamo limitarci a commentare alcuni requisiti che l’emanando regolamento sembra intenzionato a prevedere al fine di esentare gli enti non profit dal pagamento dell’IMU per le attività non commerciali.
Gli addetti ai lavori possono riconoscersi in molte delle disposizioni sopra richiamate, non solo perché fanno parte del DNA storico di molte realtà non profit in Italia, ma sono anche, nello specifico requisiti stabiliti per le ONLUS, ex d.lgs. n. 460/1997. Invero, sia le organizzazioni non profit in senso lato sia le ONLUS:
- non possono distribuire, nemmeno in modo indiretto, utili o proventi ai propri soci, stakeholders, consigli direttivi, ecc.;
- debbono reinvestire gli utili nelle attività istituzionali svolte;
- svolgono attività convenzionate, contrattualizzate ovvero in convenzione con gli enti locali (regioni, province, comuni, ecc.).
Quello che sorprende, ad essere sinceri, è la disposizione riguardante la modalità “non commerciale” riconosciuta a favore delle attività assistenziali e sanitarie, laddove si prevede che la non commercialità discenda da due elementi combinati:
- l’erogazione di quei servizi che debbono risultare complementari e integrativi di quanto erogato dagli enti pubblici;
- la gratuità o la simbolicità dei pagamenti dei fruitori, ovvero un prezzo che non può superare una certa media (difficile da comprendere).
[CzzC: l'attuale regolamento è bocciato dal Consiglio di Stato per criteri troppo eterogenei nella valutazione del costo delle prestazioni erogate dai non profit esentati: gratuità, simbolicità, non più della metà, non copertura integrale: mi chiedo se non sia opportuno mandare certi legislatori ad un corso di alfabetizzazione normativa, magari in Germania nella fattispecie, almeno per rintuzzare il sospetto che abbiano fatto apposta ad incasinare la norma, inciuciati con gli azzeccagarbugli famelici di lucro e di tempi lunghi della giustizia; se nell'azienda in cui lavorai anche in stesura di circolari ne avessimo fatta una con coltale aleatorietà di applicabilità, ci avrebbero quantomeno diffidato dal ricimentarci in materia: vedi anche questo articolo].
Ci sembra di poter dire che una simile disposizione riesca in un colpo solo a:
- risultare contraddittoria e contraria al principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost.
- contraddire la realtà fattuale, definita dall’intervento di organizzazioni non profit che svolgono attività imprenditoriale finalizzata al perseguimento di uno scopo di pubblica utilità, che a fronte delle loro prestazioni ricevono corrispettivi dalla P.A. (circostanza che nemmeno il decreto sulle ONLUS ha abrogato!).
Sembra una disposizione che riecheggia una prima stesura del d.l. sulla spending review.
Si ribadisce che non solo è necessario ed opportuno definire alcune linee di indirizzo per quanto attiene all’individuazione delle attività commerciali e non commerciali. Tuttavia, un simile intento non può essere efficacemente perseguito e realizzato se non si accetta di affermare che le finalità di interesse comunitario sono il vero discrimen per identificare l’azione dei soggetti non profit. [CzzC: convengo su discrimen vero, ma non sarebbe l’unico (ad esempio occorre l’accreditamento con l’Ente Pubblico di cui sopra); se non fosse già previsto, vedrei utile (anche per dissipare contenziosi interpretativi e diffide UE), che i non profit esentati siano nominalmente censiti, previa valutazione di merito, in un albo degli esentati IMU e agevolati per altre tassazioni (ad es. per la TARSU, che qualche convento con 4 suore e cassonetti vuoti paga per migliaia di euro perché ampio centinaia di m²). Il problema più grave di applicazione IMU si/no ai non profit sussiste per le scuole paritarie, verso le quali Monti si espresse a tutela: ora tace?]
Pare onestamente una contraddizione in termini stabilire che questi ultimi debbano svolgere la loro attività quasi in forma gratuita, quando gli enti locali, stretti tra Patto di Stabilità, piani di rientro e altri vincoli finanziari, non possono certo dirsi in grado di assicurare l’erogazione dei servizi sociale e sociosanitari ai cittadini.
[CzzC: il criterio di merito che riconoscesse la sussidiarietà dove lo Stato (o Regione, Comune, ...) non ce la facesse ad assicurare il servizio, sarebbe soggetto agli umori della partitica e finalmente perdente, mentre una sana democrazia dovrebbe contemplare il diritto di scelta per i cittadini nell’offerta di servizi pubblici, tra fornitori statali e fornitori convenzionati che costino allo stato meno del suo servizio pro capite, il che creerebbe anche la giusta concorrenza, unica formula efficace per diminuire costi e aumentare qualità di servizio, strumento di ottimizzazione del rapporto costi/prestazioni indispensabile anche e soprattutto per lo stato (se avviene nella sanità, perché non può avvenire per l’istruzione/educazione?): in tale contesto il fornitore sussidiario dovrebbe concorrere al comune obiettivo di servizio al cittadino con strutture non penalizzate rispetto a quelle usate dallo stato: se una scuola di stato non paga IMU o TARSU, perché si dovrebbe penalizzare l’edificio scolastico di una scuola paritaria che i cittadini scegliessero in alternativa al fornitore statale? Tale correlazione è evidente come è evidente che l’accanimento a tassare gli enti sussidiari (prevalentemente cattolici) proviene da pregiudizio ideologico di soggetti (mi pare collusi con filo collettivisti e/o filo massoni) che bluffano sulle loro reali intenzioni: osteggiare la sussidiarietà che, grazie alla libertà di scelta dei cittadini, insidierebbe i privilegi dei loro potentati cultural-finanziari; si fa credere ai pollacchioni che applicando l’IMU alle scuole paritarie lo stato guadagnerebbe (spending review), mentre non occorre essere ragionieri per capire che, se, ad esempio, chiudesse una scuola paritaria di 250 alunni che costano allo stato 2k€/anno anziché gli 8k€/anno che gli costerebbero se frequentassero una scuola statale, lo stato, anziché guadagnare poniamo 50k€ di IMU perderebbe 250*6k€-10k€= 1450k€ cioè quasi un milione e mezzo di euro].