ultima modifica il 22/10/2020

 

La Siria è peggio della Libia

Correlati: diritti umani; danni da potentati, masso Nobel Pace ammette lfb galassia ribelli Isis; osservatorio OSDH; criminalizzare pro guerra

Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità: contrassegno miei commenti in grigio rispetto al testo attinto da altri.

 

30/12/2011 traggo da: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=8&sez=120&id=42799

 

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 30/12/2011, a pag. I, gli articoli di Paola Peduzzi e Giulio Meotti titolati " The syrian Truman Show" e " 'Cercate Brunner a Damasco'. Quando il clan Assad arruolava i nazisti ".

 

THE SYRIAN TRUMAN SHOW

La Siria è molto peggio della Libia, ci sono già seimila morti. Le sanzioni sono inutili e i ribelli confusi. L’occidente non sa che fare, la speranza è che Assad cada da solo, e faccia poco rumore.

di Paola Peduzzi -

C’è una rivoluzione che non finisce, che sembra immobile, se non fosse che il contatore dei morti continua a girare, sfiora le seimila vittime, e ancora non si riesce a trovare un punto di svolta, o di non ritorno. La primavera araba in Siria è indigeribile per lo stomaco occidentale, che pure ingurgita di tutto, sembra messa lì per dirci: ehi, cos’è successo, non sapete più che fare? No, non sappiamo che fare.

La protesta è iniziata il 26 gennaio scorso, la scadenza prossima è il 20 gennaio del 2012, quando gli improbabili osservatori della Lega araba dovranno consegnare il report su quello che hanno visto in Siria. Un anno di rivolte, repressioni, diserzioni, minacce, stragi che hanno aggravato il mal di stomaco, cementando la consapevolezza dell’impossibilità di agire. Nel gennaio scorso pareva tutto così semplice, così possibile. I giornali si divertivano a mettere in copertina i volti dei dittatori del medio oriente e del nord Africa con su delle croci, e chiedevano: chi sarà il prossimo? Venivano giù regimi che parevano eterni, e allo stupore si sostituiva la speranza che il cecchinaggio fosse senza fine.

Bashar el Assad, il rais siriano che in apparenza non ha nulla di truce (anzi, quanto ci ha imbambolato quel ragazzo arrivato al potere per caso, con la sua mania di parlare di riforme senza farne mai una, una fornitura permanente di illusioni), era tra i candidati più citati: vive in un’isola alauita in un paese sunnita, una torre d’avorio circoscritta che sopravvive grazie al sostegno del padrino iraniano, pure lui un po’ acciaccato. Se non cade un dittatore così, chi?, e si rimetteva mano a quelle mappe che rappresentano le vittorie e le sconfitte della grande sfida intraislamica: sunniti verso sciiti, sauditi contro iraniani. Quel dittatore è ancora lì, con un esercito che non dà segni percepibili di debolezza pure se, secondo l’intelligence israeliana, disertano a migliaia. Reprime la sua gente ovunque questa alzi la testa, i carri armati sparano, i soldati per strada pure, l’intelligence terrorizza, molti scappano, tanti scompaiono. Il dato dei bambini uccisi è ben più che indigeribile: tutto è cominciato con un bimbo che aveva scritto frasi sul muro perché aveva fame, tanta fame, e poi le immagini brutali si sono moltiplicate, assieme ai pianti delle madri, inermi e mortificate dai lutti.

Non passa giorno senza un video o una foto che ci ricordi l’urgenza di fare qualcosa – assieme alla nostra inadeguatezza. I report delle ong, poi: non si riescono a leggere, pieni come sono di dettagli inaccettabili, di violenze perpetrate con un cinismo folle deciso a tavolino – ennesimo paradosso. Assad è ancora lì che sovraintende a una repressione di massa, finge il dialogo diplomatico con una Lega araba che sembra fatta apposta per dipingere Assad come la vittima di un pregiudizio negativo internazionale, si fa intervistare e candidamente dice che no, non c’è nessuna repressione, soltanto un pazzo può agire contro il suo popolo. E gli americani si chiedono: sarà pazzo sul serio, o sono i generali a comandare e Assad ci manda messaggi subliminali con queste interviste lunari? Ci si arrovella così, per capire se il regime imploderà da solo, che è l’unico modo per uscire dalla guerra, l’unico digestivo. La risposta non c’è. I giornalisti non possono entrare: alcuni sconfinano dalla Turchia e raccontano quel pezzo di Siria in cui c’è una guerra civile e militare in corso, l’esercito dei ribelli contro quello regolare, ma non si conquista nulla, si muore e basta.

Ricordate la Libia? I ribelli avanzavano, poi tornavano indietro, poi riavanzavano: si muovevano, sottraevano terra ai lealisti, puntavano a Tripoli. Poi anche in quel caso ci hanno raccontato una marcia trionfale che di trionfale non aveva nulla, se non l’enfasi dei media innamorati dell’idea di una rivoluzione dal basso contro il colonnello Gheddafi. Però almeno c’erano movimenti e persone decifrabili, leader con passati da macellai ma rivestiti per l’occasione con la cravatta, filosofi francesi che si facevano interpreti di una visione rivoluzionaria umanitaria (“la guerra senza amarla”, non si poteva dire meglio di così), il mistero del colonnello in fuga, dei suoi figli vivi e morti, persino del viagra da dare ai soldati per stuprare donne con più costanza.

In Siria c’è soltanto confusione, persino i “buoni” sembrano piegati a favorire i “cattivi”. Ricorderete Amina, la blogger lesbica che mandava dispacci meravigliosi di vita quotidiana – e violenta, e paurosa – a Damasco, la blogger che aveva un padre così fiero e così libero che ci ha fatto commuovere tutti. Quando si è scoperto che Amina non era mai esistita e che era soltanto la marionetta in mano a un quarantenne di Edimburgo che si divertiva così, a immaginarsi giovane e lesbica a Damasco, ecco quel giorno Assad ha segnato uno dei suoi punti più importanti.

Perché da quel momento, nell’indigestione generale, s’è insinuato il dubbio: ma sarà vero, mando giù anche questo? Tutto è parso più posticcio, meno credibile, tutti ci siamo sentiti come Truman quando, alla fine del film “The Truman Show”, va a sbattere con la barchetta contro il cielo finto del suo mondo finto (ci siamo anche sorbiti trattati sulla nostra professione di mediocri giornalisti che ci fidiamo della prima storia bella che gira, che non verifichiamo più, non sappiamo più cercare fonti, beviamo tutto e ci lamentiamo del mal di pancia – raccontatela voi, una guerra con mille notizie e nessun occhio credibile che può vedere da vicino).

E’ evidente che c’è qualcosa di guasto in una rivoluzione in cui si resta per settimane in balìa dei giochetti di un blogger scozzese che quando confessa il suo bluff aggiunge: “Penso di non aver danneggiato nessuno” (no figurati, hai soltanto dato ad Assad la miglior arma possibile, il vittimismo, come se ne avesse bisogno, di armi). Non si può digerire una rivoluzione in cui si scoprono “i falsi” della propaganda buona e non quelli della propaganda cattiva. I ribelli, poi. Ci siamo abituati male, bisogna ammetterlo: i ribelli libici, per la maggior parte ex di Gheddafi che hanno abbandonato una nave vecchia e instabile, hanno modificato per sempre la percezione rivoluzionaria della primavera araba.

L’eroismo del ragazzo che si è dato fuoco in Tunisia e il coraggio dei giovani che in Egitto sono morti a centinaia per cacciare Mubarak sono rimasti offuscati dalla foga tribale dei ribelli di Bengasi. Questo non significa che i libici non andassero difesi, ché quando Gheddafi minacciava di andare a stanarli come ratti “zenga zenga” era chiaro che le parole del colonnello andavano prese alla lettera. Ma nulla cambia il fatto che oggi quei ribelli ci fanno paura, non ci rassicurano, hanno fatto razzie, regolamenti di conti, stanno ancora ragionando con logiche gheddafiane (che poi sono le logiche libiche, quello lo sapevamo) e non pensano certo alla ricostruzione del paese. I ribelli siriani soffrono della stessa malattia libica, hanno un difetto di credibilità, per quanto il loro leader a Parigi, Burhan Ghalioun, sia uno degli intellettuali migliori della Siria. E’ che c’è la leadership civile dei ribelli, riuniti nel Consiglio nazionale siriano, in Francia (nella stessa Francia che ospita anche lo zio del dittatore, Rifaat, che pontifica pure lui contro il nipote) e c’è quella militare, l’Esercito libero di Siria, in Turchia, guidata da un colonnello disertore, Riad al Asaad, che non è esattamente in sintonia con Ghalioun.

Il colonnello porta avanti azioni clamorose, recluta soldati del regime regolare che è una meraviglia, si muove con la regia turca (e le armi e l’intelligence di Ankara) e il sostegno francese, ma continua a non essere convincente: non c’è un piano politico chiaro, è soltanto un grande assalto della Fratellanza musulmana che sfrutta un momento d’oro e travolge l’anomalia sciita della Siria a maggioranza sunnita? C’è dell’altro? Chissà. Clarissa Ward, strepitosa giornalista della Cbs che si è intrufolata in Siria e ha parlato con i soldati dell’esercito ribelle, ci ha restituito un’immagine idilliaca di questi militari che non vogliono sparare sui civili e combattono per vivere in un paese in cui si possa essere liberi di pensare e di agire. Ma sarà l’effetto libico che ha distorto la nostra percezione, sarà che pure l’aiuto turco non è senza contropartite, sarà che fidarsi di eserciti non regolari è sempre difficile, fatto sta che per quanto non si possa che stare con i ribelli, il mal di stomaco resta. L’ultima trovata è quella della Lega araba, che forse è quanto di più indigeribile si potesse escogitare in termini diplomatici.

La Lega araba crea spesso dei pasticci: è litigiosa, indecisa, al servizio degli interessi dei suoi finanziatori. Sulla questione siriana ha giocato pesante, ha minacciato l’espulsione di Damasco, ha deciso sanzioni, ha lanciato ultimatum. Le feluche e gli esperti che bazzicano per quegli ambienti hanno fatto un salto sulla sedia: vuoi vedere che la Lega araba questa volta ci toglie dai pasticci? Assad ha lasciato che gli osservatori della Lega araba entrassero nel paese per verificare sul campo che cosa sta avvenendo. Non che gli osservatori abbiano mai osservato qualcosa di rilevante, però è stata la prima breccia in un paese completamente sigillato, e in un anno di sanzioni inutili e di colloqui del tutto evitabili questa è stata una buona notizia. Soltanto che poi la Lega araba ha, per dirla con un’espressione americana che suona meno volgare pur non essendolo, “screwed up”, trasformando un’occasione in una farsa, tanto che già alla prima uscita – l’uscita a Homs, una protesta di 70 mila persone ad accoglierli, i carri armati ritirati in quelle tre ore in cui gli osservatori sono stati lì e ieri altri raid, una carneficina prima che si alzasse il sipario su un’altra città, i ribelli che dicevano: la smettete di dar retta a signori mandati come comparse per girare il miglior film del regime? – gli analisti hanno detto unanimi: la missione è un fallimento.

Il capo degli osservatori è un generale sudanese, Mohammed Ahmed Mustafa al Dabi, che in effetti di genocidi è un esperto, avendo creato i Janjaweed, “i diavoli a cavallo” che passavano e tagliavano teste così, per lavoro, nel Darfur. Lui smentisce, dice che ha sempre operato per coordinare gli sforzi tra Khartoum e le forze di pace dell’Onu e dell’Unione africana, che anche se fosse stata davvero questa la sua unica missione non ci sarebbe da festeggiare: quel coordinamento è stato un fallimento totale, con un milione di persone uccise. Per di più al Dabi è andato al potere con il golpe di Omar el Beshir (presidente sudanese che secondo la Corte dell’Aia è colpevole di crimini di guerra e contro l’umanità) e ha sempre lavorato con lui nell’intelligence militare del paese, negli anni in cui Osama bin Laden preparava in Sudan i suoi progetti di terrore. L’elenco degli incarichi di al Dabi potrebbe continuare, vent’anni di onorata carriera in un regime colpevole di genocidio sono ricchi di dettagli, ma può esserci uomo meno indicato per guidare gli osservatori della Lega araba in Siria? Per il segretario della Lega, l’egiziano Nabil ElArabi, la scelta è stata giusta, perché si tratta di un militare “di grande esperienza”, e al Dabi non ha deluso le aspettative dei suoi mandanti: dopo la prima visita – gli osservatori erano scortati dall’esercito di Assad – ha detto, vendendosi come un’Alice nel paese delle meraviglie con turbante bianco e baffi neri, che le autorità sono state “molto collaborative” e che stanno fornendo elementi molto utili a comprendere quel che accade in Siria (tra gli osservatori poi sono stati mandati funzionari del Bahrein, il paese che ha spianato la protesta alla Piazza delle perle facendosi aiutare dai carri armati sauditi).

La farsa della Lega araba, con i suoi dispacci quotidiani che al Dabi ogni sera compila “nella massima trasparenza” per i suoi capi al Cairo, finirà il 20 gennaio, e con essa si riaprirà la questione principale, che è quella che rende tutta questa faccenda così paradossale e indigesta: che cosa facciamo ora? I turchi hanno un piano e l’hanno già in parte messo in pratica: vogliono tirare giù il regime di Damasco sfiancandolo con continui colpi militari. L’esercito dei ribelli che trova rifugio e sostentamento sul confine con la Turchia serve a questo: minare Assad sul fronte dell’esercito, togliergli uomini, costringere l’establishment militare – che come in ogni buon regime ha un ruolo fondamentale ed è guidato dal fratello di Assad, Maher, che però non compare in pubblico da tempo, secondo alcuni è ferito, secondo altri è scappato, certo non sta drigendo le ultime operazioni militari – a liberarsi di Assad, scendere a patti con i disertori e guidare il regime change. I sauditi usano le loro ingerenze nella politica libanese – vedi l’ex premier Saad Hariri, che vive ormai tra Riad e Parigi, ché a Beirut lo farebbero fuori alla prima occasione – per destabilizzare anche quel confine, che infatti il regime siriano ha provveduto a sigillare con le mine.

I francesi, molto attivi sul versante siriano nonostante l’antica passione di Nicolas Sarkozy per Assad, invocano la fine della dittatura e per ora collaborano con i turchi e con i sauditi, anche se sono riusciti a complicarsi la vita con Ankara approvando una legge che manda in prigione chi nega il genocidio armeno (la questione è gravissima: secondo alcuni questa mossa puramente elettorale pone fine alla collaborazione franco-turca in Siria, rendendo ancora più drammatica l’impossibilità di agire). E l’America? Come tutti, spera in un collasso interno, cioè che il regime cada da sé, ma più passa il tempo e più la linea fatalista perde vigore. Molti al Congresso criticano l’Amministrazione Obama per la sua inazione: il presidente sta applicando – secondo alcuni esperti – la dottrina già vista in Libia, quella del “leading from behind”, e in questo caso il “behind” è soprattutto in quella Turchia rientrata nell’orbita americana dopo le sue pericolose passeggiate a braccetto con Teheran. Ma questa strategia non dà risultati, è logorante ma non incisiva e intanto il numero dei morti sale e le pressioni internazionali aumentano. Secondo The Cable, blog retroscenista di politica internazionale di Foreign Policy, lo status quo è diventato inaccettabile anche per le bocche buone dell’Amministrazione americana, e così si sta predisponendo un piano d’assistenza per l’opposizione.

Al National Security Council si riunisce un team molto snello formato da persone del dipartimento di stato, della Difesa e del Tesoro: nel gruppo ha un ruolo importante Fred Hof, il diplomatico che ha definito Assad “un morto che cammina” e che gestisce i rapporti con i leader dell’opposizione siriana e gli altri alleati americani nella regione. Il team sta prendendo in considerazione alcune opzioni: creare un corridoio umanitario o una “zona di sicurezza” per i civili lungo il confine con la Turchia; estendere l’aiuto umanitario ai ribelli; fornire aiuto medico agli ospedali siriani; stabilire contatti stabili con i ribelli, formare un gruppo di contatto internazionale oppure designare un coordinatore speciale che lavori con l’opposizione siriana, sul modello libico. In sostanza si vuole escludere qualsiasi opzione di “no fly zone” (anche perché coinvolgere un’altra volta la Nato e l’Onu sarebbe impossibile: i russi stanno sostenendo Assad, assieme a Hezbollah, che non è più vassallo ma fornisce denaro che raccoglie con la vendita di droga nelle Americhe, e l’Iran) e per questo il corridoio umanitario pare improbabile, e agire sull’opposizione. Una delle fonti di The Cable dice: “Molti pensano che stiamo eterodirigendo dal sedile posteriore il regime change, ma il motivo per cui siamo così cauti è che, se pensi alle possibili ramificazioni di un’alterazione dello status quo, non ne vieni fuori”. Anche l’idea di collaborare con l’opposizione però non fa dormire la notte molti funzionari americani: i ribelli si sono militarizzati con una velocità sospetta e la leadership civile pare in balìa degli espatriati, priva di un sostegno reale in Siria. Per di più ci sono stati già dei litigi: l’estate scorsa ci fu un incontro tra il Consiglio nazionale siriano e Washington per inviare aiuti medici in Siria; le due parti iniziarono a discutere sulla giurisdizione dell’intervento e il risultato fu che non arrivò negli ospedali siriani alcun aiuto.

L’unico piano allo studio, cioè il digestivo della diplomazia internazionale, si fonda quindi sulla collaborazione con un’opposizione di cui nessuno si fida. E, come dice un funzionario anonimo, resta sempre nell’aria l’idea che non fare nulla sia meglio che fare qualcosa di troppo: “Questa non è la Libia. Quel che fai in Libia resta in Libia, con la Siria è diverso. Il rischio di muoversi più velocemente continua a essere più alto di quello di muoversi troppo piano”. Che è come dire: aspettiamo il 20 gennaio, ma non fatevi illusioni, non sappiamo che fare.

 

_____________________

Nella stessa pagina l’articolo “Cercate Brunner a Damasco”. Quando il clan Assad arruolava i nazisti  di Giulio Meotti