Corriere della Sera  03-03-2011 Pagina     49

Fede II secondo volume su Cristo. Benedetto XVI riflette su Giuda e corregge la data dell'Ultima Cena

«Ecco chi chiese la morte di Gesù»

Il Papa: l'aristocrazia del Tempio e i seguaci di Barabba, non il popolo ebraico

di GIAN GUIDO VECCHI

Crucifige! La domanda ha attraversato duemila anni di cultura occidentale ricevendo risposte nefaste: «Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte?». E pensare che tutto dipendeva dal Vangelo secondo Matteo, il primo della tradizione, anche se il più antico è in realtà quello di Marco. Ed è Marco, nell'originale greco, a parlare di ochlos, un termine che indica semplicemente una folla, una quantità di gente: quella che sceglie di liberare Barabba. «Un'amplificazione dell'ochlos di Marco, fatale nelle sue conseguenze, si trova in Matteo (27,25), che parla invece di "tutto il popolo", attribuendo ad esso la richiesta della crocifissione di Gesù». Sono parole importanti, quelle che Benedetto XVI scrive nell'attesissima seconda parte del suo libro Gesù di Nazaret, «dall'ingresso a Gerusalemme alla Risurrezione», che uscirà la prossima settimana: «Con questo, Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù?».

No, la «realtà storica» sta altrove. E se l'essenziale, in materia, è ciò che si legge nella dichiarazione conciliare Nostra aetate del 1965 («Se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo»), il capitolo che Joseph Ratzinger dedica al processo davanti a Pilato spiega l'origine di quell'estensione «fatale» di significato e afferma: «La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco».

Chi erano gli accusatori? «Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i "giudei". Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto — come il lettore moderno forse tende a interpretare — il popolo d'Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere "razzista"» scrive il Papa. «In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi. L'intera comunità primitiva era composta da israeliti». L'espressione «giudei», nel quarto Vangelo, ha insomma «un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l'aristocrazia del tempio».

E poi c'è l'ochlos di Marco: «Significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la "massa". Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di "plebaglia". In ogni caso con ciò non è indicato "il popolo" degli ebrei come tale». Piuttosto, la parola designa «i sostenitori di Barabba» il quale, «come rivoltoso contro il potere romano, poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti», mentre i seguaci di Gesù «per paura rimanevano nascosti». E così «la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale».

L'aristocrazia del tempio («ma anch'essa non senza eccezione»), i sostenitori di Barabba. Resta da capire perché Matteo abbia parlato di «tutto il popolo». Forse, riflette il Papa teologo citando Joachim Gnilka, «ha voluto formulare un'eziologia teologica con cui spiegarsi il terribile destino di Israele nella guerra giudeo-romana nella quale vennero tolti al popolo la Terra, la città e il tempio». Ma anche qui Ratzinger avverte come le parole del «popolo» riferite da Matteo, «il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli», non vadano lette da un cristiano come una maledizione: «Il sangue di Gesù parla un'altra lingua rispetto a quello di Abele: non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. Non è versato contro qualcuno, ma per molti, per tutti».

Del resto, è questo il tema decisivo del secondo volume su Gesù: «Il Signore è veramente risorto. Egli è il Vivente». Una «interpretazione teologica» del Nuovo Testamento per mostrare che Gesù è quello raccontato dai Vangeli. Con qualche sorpresa. Nel capitolo dedicato alla data dell'Ultima Cena, ad esempio, il Papa «corregge» i sinottici: quella sera, il Giovedì Santo, non poteva essere la vigilia della Pasqua ebraica (Pesach), come scrivono Matteo, Marco e Luca e come vuole la tradizione. L'indomani, venerdì, Gesù viene processato e crocifisso: e questo, spiega Ratzinger, non sarebbe stato possibile, a Gerusalemme, nel giorno di una festa così importante per gli ebrei. Quindi ha ragione il quarto evangelista, Giovanni, il quale «bada con premura a non presentare l'Ultima Cena come cena pasquale». Difatti racconta che quel venerdì le autorità del sinedrio evitano di entrare nel pretorio «per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua», il che significa che nella giornata di venerdì Pesach non era ancora iniziata:

«Processo e crocifissione avvengono il giorno prima della Pasqua» che in quell'anno «si estende della sera del venerdì fino alla sera del sabato».

E ancora, tra le pagine anticipate ieri dalla Libreria Editrice Vaticana, la sentenza di Pilato che alla «verità» e alla «giustizia» preferisce una «pace» pragmatica, temendo che l'assoluzione provochi disordini: senza capire che la pace «non può mai stabilirsi contro la verità» né si può fondare sul solo «potere militare», perché è proprio il mancato riconoscimento della verità «a far sì che il potere dei più forti diventi il dio di questo mondo». E una riflessione vertiginosa sul mistero di Giuda, il traditore che compie «un primo passo verso la conversione» riconoscendo: «Ho peccato». Ma la sua «seconda tragedia» dopo il tradimento, scrive il Papa, è «che non riesce più a credere a un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione».

Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. È finito sotto il dominio di qualcun altro (...) Il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall'intervento di un altro potere, al quale si è aperto. Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell'anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C'è un primo passo verso la conversione: «Ho peccato» dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e ridà il denaro (cfr Mt 27, 3ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù rimaneva iscritto nella sua anima — non poteva dimenticarlo. La seconda sua tragedia — dopo il tradimento — è che non riesce più a credere a un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù — quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento. Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza — una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù.

 

Quando il potere decide di fare a meno della verità

 

Il dominio richiede un potere, addirittura lo definisce. (...) Se invece Gesù basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: «Che cos'è la verità?». E la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: puòla politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell'ambito del potere? Vista l'impossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di conservazione del potere? Ma, dall'altra parte — che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti — criteri sottratti all'arbitrarietà delle opinioni mutevoli e alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione?

 

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2011.03.03 Traggo da Il tempo.it http://www.iltempo.it/2011/03/03/1241067-ponzio_pilato_sacrifica_verita_sull_altare_della_convenienza.shtml

Ponzio Pilato sacrifica la verità sull'altare della convenienza

Quando il Vangelo afferma che gli accusatori di Gesù furono i "Giudei" non è "razzista". Colpevole non fu il popolo di Israele ma l’aristocrazia del Tempio: questa una delle considerazioni di Benedetto XVI nel suo nuovo libro del quale pubblichiamo ampie anticipazioni.

L'interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio si era concluso così come Caifa se l'era aspettato: Gesù era stato dichiarato colpevole di bestemmia, un reato per il quale era prevista la pena di morte. Ma siccome il potere di infliggere la pena capitale era riservato ai Romani, il processo doveva essere trasferito davanti a Pilato e con ciò doveva entrare in primo piano l'aspetto politico della sentenza di colpevolezza. Gesù si era dichiarato Messia, aveva quindi preteso per sé la dignità regale, anche se in modo del tutto particolare. La rivendicazione della regalità messianica era un reato politico, che dalla giustizia romana doveva essere punito.(...) Così Gesù viene dai suoi accusatori condotto al pretorio e presentato a Pilato come malfattore meritevole di morte. È il giorno della «Parasceve» per la festa di Pasqua: nel pomeriggio vengono immolati gli agnelli per il banchetto serale. Per questo è esigita la purezza rituale; i sacerdoti accusatori non possono quindi mettere piede nel pretorio pagano e trattano con il governatore romano davanti all'edificio. Giovanni che ci trasmette tale notizia (cfr 18,28s) lascia con ciò trasparire la contraddizione tra l'osservanza corretta delle prescrizioni cultuali di purezza e la questione della vera, interiore purezza dell'uomo: agli accusatori non viene in mente che non l'entrare nella casa pagana sia ciò che inquina, ma l'intimo sentimento del cuore. Al tempo stesso l'evangelista sottolinea con ciò che la cena pasquale non ha ancora avuto luogo e che l'immolazione degli agnelli deve ancora avvenire. Nella descrizione dell'andamento del processo i quattro Vangeli concordano in tutti i punti essenziali. Giovanni è l'unico che riferisce il colloquio tra Gesù e Pilato, in cui la questione circa la regalità di Gesù, circa il motivo della sua morte, viene scandagliata in tutta la sua profondità (cfr 18,33- 38).(...) Ma domandiamoci anzitutto: chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte? Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere. Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i «Giudei ».

 

Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto – come il lettore moderno forse tende ad interpretare – il popolo d'Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere «razzista». In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era Israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi. L'intera comunità primitiva era composta da Israeliti. In Giovanni tale espressione ha un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l'aristocrazia del tempio.(...) In Marco, nel contesto dell'amnistia pasquale (Barabba o Gesù), il cerchio degli accusatori appare allargato: compare l'«ochlos» ed opta per il rilascio di Barabba. «Ochlos» significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la «massa ». Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di «plebaglia». In ogni caso con ciò non è indicato «il popolo» degli Ebrei come tale(...). Per quanto riguarda questa «massa », si tratta di fatto dei sostenitori di Barabba, mobilitati per l'amnistia; come rivoltoso contro il potere romano, questi poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti. Erano quindi presenti i seguaci di Barabba, la «massa », mentre gli aderenti a Gesù per paura rimanevano nascosti, e in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale.(...) A proposito di queste parole bisogna – come indicato già nella riflessione sul discorso escatologico di Gesù – ricordare l'intima analogia tra il messaggio del profeta Geremia e quello di Gesù. Geremia annuncia – contro l'accecamento dei circoli dominanti d'allora – la distruzione del tempio e l'esilio di Israele. Ma parla anche di una «nuova alleanza»: il castigo non è l'ultima parola; esso serve alla guarigione. Analogamente Gesù annuncia la «casa deserta» e dona già fin d'ora la nuova alleanza «nel suo sangue»: in ultima analisi si tratta di guarigione, non di distruzione e ripudio. Se secondo Matteo «tutto il popolo» avrebbe detto: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli» (27,25), il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un'altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr Eb 12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. (...) Pilato - lo ripetiamo - conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui. Ma alla fine vinse in lui l'interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto (...). Un'assoluzione dell'innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente – il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire –, ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare. La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia.

Joseph Ratzinger - Benedetto XVI

03/03/2011