Conversione di un centinaio di Mujaheddin

Erano stati indottrinati all’estremismo islamo-marxista, sono stati conquistati da Cristo: «Gesù non ha fatto guerre, è venuto in pace; ha dato la sua vita per noi sulla croce, si è sacrificato per noi anziché sacrificare le persone per obiettivi politici», dice uno di loro. «Solo Dio può fare così. Quindi quando ci hanno detto che Maria non ha conosciuto uomo, che ha concepito Gesù da vergine per la potenza di Dio, per noi era una spiegazione ragionevole».

[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 24/03/2024; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]

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2010.12.21 stralcio di questo testo completo di Tempi)

Gesù tra i Mujaheddin

La rocambolesca conversione dei militanti della resistenza islamo-marxista al regime iraniano. Esiliati nell’Iraq di Saddam, addestrati alle armi, indottrinati all’estremismo. E alla fine conquistati da Cristo. Parlano tre testimoni

di Rodolfo Casadei

 

Nel maggio del 2003 le truppe americane, ormai padrone di tutto l’Iraq, fanno il loro ingresso a Camp Ashraf, una struttura messa a disposizione dei Mujaheddin del popolo (Mek) iraniani da Saddam Hussein … Circa 300 di essi dichiarano di non voler più far parte dell’organizzazione e vengono collocati in un’area speciale del campo, sotto la protezione di militari americani e del contingente bulgaro. I 300 “defectors” chiedono di vedersi riconosciuto lo status di profughi e organizzano scioperi della fame e manifestazioni di protesta contro i “liberatori” americani. Però accettano con interesse le visite dei cappellani militari americani … I colloqui coi cappellani si moltiplicano. La faccenda prende una svolta sensazionale: nel giro di tre anni la maggioranza del gruppo chiede e riceve il battesimo cristiano. … Oggi sono sparsi un po’ in tutto il mondo, e cominciano a raccontare, pur esigendo massima riservatezza e discrezione, le loro storie.
Noi ne abbiamo incontrati alcuni a Parigi… militanti e dirigenti del Mek che ancora soggiornano a Camp Ashraf li disprezzano come disertori, e adesso qualunque estremista islamico potrebbe sentirsi autorizzato a spargere il loro sangue di “apostati”: nessun gruppo di iraniani al mondo è più braccato di loro. Eppure non si pentono delle scelte fatte dal 2003 ad oggi.
… «A Camp Ashraf avevo perso il rapporto con Dio, ci obbligavano a praticare l’islam sciita come tanti bambinetti, nel cristianesimo ho trovato la pace», aggiunge Shahrooz. «Io nei quattro anni passati al campo continuavo a pregare Dio dentro di me, perché gli atti religiosi esteriori che ci imponevano erano completamente vuoti», dice Rezah. «Nella chiesa-tenda ho avuto la chiara percezione che il Dio che abitava lì era lo stesso a cui mi rivolgevo nel mio cuore».
Protestavamo e odiavamo gli americani, ma non potevamo fare a meno di ascoltare con attenzione i loro cappellani». I tre giovani non sanno nemmeno dire a quali denominazioni protestanti appartenessero. «Loro non ci hanno mai detto “siamo battisti” oppure “siamo evangelici”, ma cercavano di spiegare le differenze di dottrina», racconta Rezah. «Alcuni di loro ci dicevano: “Per noi la cosa più importante è la fede”, altri ci dicevano: “Per noi la cosa più importante è lo Spirito Santo”, ma noi facevamo fatica a capire queste differenze. Per me e per i miei compagni la cosa più importante era ed è ancora la figura di Cristo, che prima non conoscevamo». «Gesù non ha fatto guerre, è venuto in pace; ha dato la sua vita per noi sulla croce, si è sacrificato per noi anziché sacrificare le persone per obiettivi politici», dice Shahrooz. «Solo Dio può fare così. Quindi quando ci hanno detto che Maria non ha conosciuto uomo, che ha concepito Gesù da vergine per la potenza di Dio, per noi era una spiegazione ragionevole».
Una catechesi un po’ improvvisata
Arash respinge il sospetto che le conversioni siano state funzionali a facilitare le richieste d’asilo all’estero: «Quando siamo stati battezzati avevamo già lo status di rifugiati riconosciuto da Ginevra. La conversione non ci ha fatto guadagnare nulla, anzi ha reso più difficile la nostra condizione: non potevamo più essere accolti nei paesi musulmani e potevamo essere arrestati o aggrediti dagli estremisti in Iraq. È vero che qualcuno si è convertito per conformismo con quello che stava facendo la maggioranza di noi, ma si tratta di casi isolati».
Resta il fatto che la catechesi di questi neofiti è stata molto improvvisata: «Non era il catecumenato per gli adulti come fanno qui in Francia i cattolici», chiarisce Hamid. «Io e gli altri abbiamo fatto un incontro alla settimana per qualche mese, e alla fine siamo stati ammessi al battesimo. Ma se mi chiede a quale Chiesa appartenesse il pastore che mi ha battezzato, io non lo so dire e neanche la maggior parte dei miei ex compagni». Adesso che sono sparsi per il mondo, i neo-cristiani di Camp Ashraf continuano a considerare la loro nuova fede come la cosa più importante da approfondire nella loro nuova vita. Pagando il dazio della formazione approssimativa ricevuta, compresi episodi esilaranti: «Quando sono arrivato qui, ho cominciato a frequentare i testimoni di Geova», dice Arash. «Mi sembrava che il loro linguaggio corrispondesse a quello che avevo ascoltato in Iraq. Alla terza riunione ho capito che avevo sbagliato. Adesso frequento una parrocchia cattolica, e mi trovo molto meglio».