Avvenire 30/09/2010 Pag 2
«Io, vescovo, costretto a rimanere nascosto»
· Monsignor Nona è succeduto a monsignor Rahho, assassinato nel 2008 «Cambio abito e percorso ma incontro i fedeli. Non cediamo al terrore»
· «Oggi abitano qui settecento famiglie, quelle più povere, che non possono partire»
· «Dopo le bombe, sei parrocchie su dieci non sono più attive Messa solo in 4 chiese»
DAL NOSTRO INVIATO A A MOSUL
LUIGI GENINAZZI
Ci si arriva dopo l’ennesimo posto di blocco dell’esercito iracheno che controlla l’ingresso di una strada dominata dalla croce in cima alla cupola di una chiesa. Di fronte c’è la residenza dell’arcivescovo caldeo, monsignor Emil Shimoun Nona, che ci accoglie con grande cordialità. «È la prima volta che vengono dei giornalisti fin qui, a casa mia», dice sorridendo. Non è stato poi così difficile, anche se tutti ci avevano sconsigliato un simile viaggio. Mosul, cuore antico della Chiesa caldea fedele a Roma, è diventata il mattatoio dei cristiani, la città tristemente simbolo di una nuova stagione di persecuzioni che dura da sette anni e di cui non si vede ancora la fine. Un occidentale non passa inosservato, e se poi è anche un giornalista cattolico diventa un doppio bersaglio. E comunque vedrai, ti fermeranno al primo check-point, mi dicevano.
Invece, in auto insieme con un collega e con un prete che non ha mai smesso di venirci e sa evitare le zone più a rischio, tutto è filato liscio. Ci vuole ben più coraggio a vivere qui tutti i giorni. Come quello che ha monsignor Emil Nona – chiamato a succedere a monsignor Faraj Rahho, ucciso nel 2008 – giovane parroco di 42 anni consacrato vescovo di Mosul all’inizio del 2010. «Non potevo rifiutare l’incarico, questa comunità sempre più piccola e martoriata aveva bisogno di un pastore. È toccato a me», spiega con semplicità.
Eccellenza, come vivono i cristiani a Mosul?
Siamo rimasti in pochi, anzi pochissimi. Mosul era la seconda diocesi più grande della Chiesa caldea in Iraq, qui in città vivevano decine di migliaia di fedeli ma quasi tutti sono fuggiti. Sono rimaste circa 700 famiglie, quelle più povere che non hanno mezzi per trasferirsi altrove. Su dieci parrocchie sei non funzionano più, soltanto in quattro chiese si celebra regolarmente Messa la domenica. Non hanno più fedeli; inoltre, molti edifici di culto sono inagibili perché danneggiati dalle bombe.
Com’è la sua vita quotidiana? Come si muove?
Cerco di vivere normalmente, anche se con qualche precauzione. Quando esco cambio sempre itinerario, qualche volta anche l’auto. La mia attività pastorale è molto ridotta e nascosta, ogni settimana tengo un incontro sui Dieci Comandamenti nella vicina chiesa di San Paolo, che si trova in una zona relativamente tranquilla dove i fedeli possono riunirsi. Cerco di visitare le famiglie, ma senza dare nell’occhio. E quando mi reco nella città vecchia, dove ad ogni angolo posso incappare in qualche brutta sorpresa, non metto la talare e ci vado senza alcun preavviso. Devo dire però che negli ultimi tempi la situazione è un po’ migliorata.
Intende dire che c’è più sicurezza?
Dopo le elezioni che si sono tenute a marzo, il numero di omicidi, sequestri e attentati è diminuito. Credo sia dovuto a due motivi: i sunniti hanno stravinto qui a Mosul, controllano il governo locale e quindi anche le loro frange più estremiste. Inoltre, sia pure fatico- samente, si sta avviando un dialogo tra arabi e curdi. Nonostante questo, Mosul resta sempre la città più pericolosa di tutto l’Iraq.
Come si spiega?
Storicamente Mosul è sempre stata una roccaforte dell’islam radicale. Episodi d’intolleranza nei riguardi dei cristiani c’erano anche ai tempi di Saddam Hussein. Poi, nel caos che è seguito alla guerra del 2003, è dilagata la violenza fondamentalista e Mosul è diventata il punto di raccolta di tutti i gruppi estremisti, sia locali che stranieri, a cominciare da al-Qaeda, cui si sono aggiunte altre sigle terroristiche.
In questa terribile situazione come intende la sua missione pastorale?
Io dico sempre una cosa: basta con la paura di morire, ritroviamo la voglia di vivere. È questo il mio messaggio ai fedeli che da sette anni continuano a soffrire: dobbiamo testimoniare un’umanità vera, quella che ci ha donato Cristo e che nessuno ci potrà mai togliere. Non possiamo vivere nella paura! Ma l’esodo della famiglie purtroppo continua, la mia gente ha perso la fiducia, non crede che a Mosul i cristiani potranno avere ancora un futuro.
Lei vede qualche segno di speranza?
Ho trovato persone che hanno rafforzato la loro fede dopo aver perso amici e familiari colpiti dalla violenza anticristiana. Non provano sentimenti di odio e di vendetta, e questo mi è di grande esempio. La speranza non muore: qualche settimana fa due ragazzi di Mosul sono venuti a dirmi che vogliono diventare sacerdoti di questa nostra Chiesa sofferente. Devo ammettere che mi sono commosso.
Che cosa s’aspettano dall’Occidente i
cristiani iracheni?
Nulla. Il giudizio sugli americani resta molto negativo: sono intervenuti in Iraq sulla base dei propri interessi, senza tener conto delle conseguenze a livello generale e dei contraccolpi pesantemente negativi per la presenza dei cristiani. Difficile che adesso s’aspettino qualcosa di buono da chi ritengono essere il principale responsabile delle loro disgrazie.
Avete ricevuto solidarietà dalle Chiese d’Occidente?
Non posso parlare a nome di tutte le Chiese d’Iraq. Come vescovo di Mosul, devo dire che la mia diocesi ha ricevuto qualche aiuto materiale dai cattolici tedeschi. Ma abbiamo bisogno di non sentirci soli e abbandonati, è questo che conta.
Eccellenza, lei parteciperà al Sinodo sul Medio Oriente che si terrà a Roma fra pochi giorni. Quali sono le sue attese?
Dal Sinodo mi aspetto non solo parole d’incoraggiamento, bensì anche indicazioni concrete per vivere la fede in una terra dove il cristianesimo ha radici antiche ma la cui presenza oggi è minacciata dal fondamentalismo islamico. È un compito difficile, eppure dobbiamo affrontarlo come Chiesa universale. Mi va bene che si parli di dialogo con il mondo musulmano, ma bisogna uscire dal generico, definendo chiaramente con chi e su quali punti è possibile dialogare.
Lei ha preso la guida della diocesi di Mosul in seguito al brutale assassinio del suo predecessore. Si è fatta chiarezza sui mandanti e sugli esecutori dell’omicidio di monsignor Rahho?
Ancora oggi non sappiamo esattamente che cosa sia successo. C’è stata una commissione d’inchiesta governativa i cui lavori si sono conclusi con l’arresto e la condanna a morte di una persona ritenuta colpevole. Ma non conosciamo la sua identità e neppure i capi d’accusa. Siamo ancora lontani dalla verità, il che acuisce il nostro grande dolore.
Quando potremo tornare in una Mosul tranquilla e pacificata?
Solo Dio lo sa. Attendiamo con ansia la formazione del nuovo governo a Baghdad. L’aspettiamo da più di sei mesi. Spero in un esecutivo di concordia nazionale. Ma se i sunniti restassero fuori, il Paese potrebbe ripiombare nella guerra civile. E per noi cristiani, già duramente provati, sarebbe la fine.
scia di sangue
CHIESE NEL MIRINO
Dal 2004 escalation d’attacchi
I primi attentati a Mosul risalgono al 1° agosto 2004, quando diverse chiese della città vennero fatte saltare in un attacco coordinato. Un secondo attacco simultaneo avvenne il 7 dicembre 2004. Nel novembre 2009 due ordigni colpirono la chiesa di Sant’Efrem e la Casa Madre delle suore domenicane. L’ultimo attentato risale al 15 dicembre scorso, quando diversi ordigni hanno semidistrutto le chiese sirocattoliche della Vergine Maria e dell’Annunciazione.
L’ECCIDIO DI RELIGIOSI
Quattro uccisi con crudeltà
Il 3 giugno 2007, la domenica dopo Pentecoste, il sacerdote caldeo Ragheed Ganni, 35 anni, viene assassinato a Mosul assieme ai tre suddiaconi che erano con lui: Basman Daud,Wahid Isho e Ghassan Bidawid. I killer assassinarono i quattro religiosi a sangue freddo, poi collocarono attorno ai loro corpi cariche d’esplosivo perché nessuno osasse avvicinarsi. Solo a tarda sera la polizia riuscì a disinnescare gli ordigni e a raccogliere i corpi dei martiri.
L’OMICIDIO DI RAHHO
«Atto di violenza disumana»
Il 29 febbraio 2008, mentre usciva dalla Chiesa Santo Spirito di Mossul, poco dopo la celebrazione della Via Crucis, l’arcivescovo caldeo Paulos Faraj Rahho venne rapito da un commando armato che lo prelevò dopo aver assassinato il suo autista e due guardie. Dopo alcuni giorni di serrate trattative per la sua liberazione, il presule fu trovato morto il 12 marzo. Papa Benedetto XVI parlò di «atto di violenza disumana che offende la dignità dell’essere umano».
ORTODOSSI COLPITI
Rapimenti ed esecuzioni
Gli attentati non hanno colpito solo il clero cattolico. Nell’ottobre 2006 fu rapito un sacerdote siroortodosso di 52 anni, padre Boulos Iskander Bahnam. I terroristi chiedevano un riscatto di 350mila dollari per la sua liberazione.Tre giorni dopo, il corpo del sacerdote venne ritrovato con la testa e le braccia mozzate. Il 26 novembre del 2006 fu sequestrato il diacono della Chiesa nazionale evangelica di Mosul, padre Munthir al-Saqa, poi ucciso con un colpo di pistola alla nuca.
ATTACCHI «MIRATI»
Una vera «pulizia religiosa»
La comunità cristiana di Mosul vede dietro gli 'assassini mirati' (otto uccisi tra il 14 e il 23 febbraio 2010) un progetto che vorrebbe spingerli verso la piana di Ninive, con l’obiettivo di crearvi un 'ghetto cristiano'. Il governo di Baghdad assiste impotente e attribuisce gli attacchi ad al-Qaeda e alle frange fondamentaliste. Ma secondo Human Rights Watch, i cristiani sono vittime della lotta di potere fra arabi e curdi.
(a cura di Camille Eid)
Pag 3 LA STORIA
Rimangono solo 400mila In vent’anni l’emorragia di una presenza millenaria
Oggi in Iraq rimangono solo 400mila cristiani (in maggioranza cattolici caldei, ma anche assiri, siriaci, armeni e latini) dei 700mila che fino a vent’anni fa vivevano nel Paese. Un’emorragia che mette a repentaglio il futuro del cristianesimo in una terra che fu tra le prime ad accogliere il Vangelo: la tradizione fa infatti risalire le prime comunità di Mesopotamia alla predicazione dell’apostolo Tommaso. Nel V secolo, la Chiesa locale adotta il nestorianesimo per sfuggire alle accuse di connivenza con i bizantini, nemici storici dei padroni persiani. I nestoriani furono protagonisti di uno straordinario slancio missionario che ha permesso di irradiare il messaggio cristiano fino a Pechino. La storia ricorda anche l’enorme debito della scienza e della letteratura arabe verso i cristiani iracheni. Il dominio islamico segna anche l’inizio di un declino, almeno a livello demografico. Più tardi, quando la Mesopotamia fu contesa tra Ottomani e Safavidi di Persia, molti cristiani rimasero esposti alle incursioni dei curdi, mentre altri passarono all’islam per sfuggire alla difficile condizione di 'dhimmi'. Il distacco dalla Chiesa romana proseguì per secoli, fino a quando, nel 1553, papa Giulio III riaccolse il vescovo di Mosul in comunione con Roma e gli diede il titolo di 'Patriarca dei caldei'. Nasceva così il rito caldeo della Chiesa cattolica. Una data decisiva per la storia dei caldei che ora vivono tra il Medio Oriente e Detroit, negli Usa, è il 1830, quando un altro vescovo si sottomise a Roma e ricevette il titolo di 'Patriarca di Mosul'. Il Novecento fu gravido di tragedie: le promesse alleate di autonomia – non mantenute – nel primo dopoguerra, gli eccidi della comunità assira negli anni 30, la situazione precaria sotto la monarchia, la libertà vigilata con la dittatura Baath, fino all’embargo e all’occupazione, che hanno causato nuove migrazioni.
CAMILLE EID
Mosul, la terra del martirio
Stragi e persecuzioni, i cristiani messi in fuga dagli estremisti musulmani
· Chi può scappa. A chi se ne va i gruppi radicali impongono di pagare la metà del ricavato dalla vendita della casa. Ma qualcuno, con coraggio, torna dall’estero per servire la Chiesa
DAL NOSTRO INVIATO A MOSUL
LUIGI GENINAZZI
Le mura con le pietre a sbalzo ed i fregi in stile assiro-babilonese, annerite e danneggiate dagli incendi provocati dalle bombe, conferiscono un’aria spettrale alla chiesa dello Spirito Santo, chiusa dopo i ripetuti attacchi di questi ultimi anni. La grande e moderna costruzione caldea che sorge in quel che un tempo era un quartiere misto di arabi sunniti e di cristiani è diventata il Colosseo del XXI secolo in terra irachena. Qui è caduto il giovane padre Ragheed Ganni, ucciso insieme a tre suddiaconi in pieno giorno da terroristi a viso scoperto. E su questo stesso piazzale venne rapito e poi assassinato l’arcivescovo Faraj Rahho. Non si può sostare neppure un attimo per una preghiera, «questa è la zona più a rischio di tutta la città», mi dice Marcos Sabah, uno dei pochi cristiani rimasti a Mosul.
C’è da crederci, fino a due anni fa lui abitava proprio qui «ma la pressione sociale e la tensione psicologica erano arrivate ad un livello insostenibile», spiega, e così si è trasferito con tutta la famiglia in un quartiere residenziale della periferia, dove ci sono più garanzie di sicurezza. Negli ampi viali costeggiati da alte case incontriamo un check-point dell’esercito iracheno ogni duecento metri, in giro ci sono più militari che civili. Fermi in coda per i controlli, tutti sono nervosi e si guardano attorno con diffidenza perché a Mosul, come ricorda il mio amico con macabro umorismo, le auto-bombe sono più frequenti dei tamponamenti. Comunque, meglio qui che nella città vecchia, oltre il Tigri, un dedalo di viuzze che ad ogni angolo nascondono un’insidia.
Marcos e sua moglie Hanna si sentono dei superstiti. Mosul era la seconda città dell’Iraq per numero di cristiani, 50mila su una popolazione di oltre due milioni. Oggi è una comunità letteralmente decimata, ridotta a poco più di 4mila persone che vivono nel terrore d’essere aggredite, sequestrate e uccise dai gruppi fondamentalisti islamici che nessuno sem- bra poter o voler fermare. Chi può scappa, lasciando sul posto tutto quel che aveva. Ai cristiani che se ne vanno i gruppi fondamentalisti impongono di pagare la metà di quanto hanno ricavato dalla vendita della casa.
Marcos ha deciso di non vendere, ma teme che la sua vecchia abitazione finirà con l’essere occupata abusivamente, come spesso succede. Due suoi figli se ne sono andati in Svezia, la figlia con il neosposo non vede l’ora di seguirli. «Quando esco devo mettermi il velo, vengo insultata e minacciata continuamente. E voi scrivete che adesso in Iraq c’è la libertà », scuote il capo tristemente la giovane. Basil, il marito, lavora come autista per il vicino convento di San Giorgio, anche se ormai vi è rimasto un solo monaco. In quest’antica fortezza in cima alla collina si respira un clima di tranquillità e di pace, un’oasi nell’inferno di Mosul.
Per sfuggire alle intimidazioni e alle violenze migliaia di famiglie si sono rifugiate nella piana di Ninive, trovando ospitalità nei villaggi tradizionalmente abitati dai cristiani. Distano una manciata di chilometri da Mosul, cui fanno capo amministrativamente, ma di fatto stanno sotto l’ombrello protettivo del governo autonomo del Kurdistan le cui milizie, i famosi peshmerga già in guerra con Saddam Hussein, sono massicciamente presenti nelle cosiddette 'disputed zones', le aree dell’Iraq settentrionale in attesa di uno status definitivo. Percorrendo la pianura arida e assolata di Ninive, balza immediatamente all’occhio un paesaggio fatto di cupole, croci e immagini della Madonna. È qui che i cristiani in fuga dall’orrore affrontano la difficile sfida della sopravvivenza. Hanno costituito una guardia d’autodifesa che presidia i villaggi, gente armata in uniforme, riconosciuta sia dal governo centrale di Baghdad sia da quello regionale curdo. A Karamlis, 5mila abitanti, la guardia d’autodifesa può contare su 250 uomini. Nella chiesa di Mar Addai c’è la tomba di padre Ganni, già venerato dai fedeli come un martire. Anche la salma di monsignor Rahho venne sepolta qui prima di essere traslata nella chiesa di San Paolo a Mosul.
«Nei nostri villaggi si vive in un clima di relativa sicurezza ma la gente non ha lavoro, e soprattutto non ha fiducia nel futuro », ci dice monsignor Georges Casmoussa, il vescovo siro-cattolico di Mosul il cui sequestro, fortunatamente concluso con la sua liberazione, segnò l’inizio dell’interminabile Via Crucis dei cristiani iracheni. «Dobbiamo imparare ad alzare lo sguardo, a non perdere la speranza», sottolinea padre Gibrail Tooma, superiore degli Antoniani caldei nel convento di Nostra Signora delle Messi, che sorge ad Alqosh, all’estremità settentrionale della piana di Ninive. Ha studiato a Roma ed è tornato a Baghdad nel momento peggiore, alla fine della guerra del 2003. Ha visto la morte da vicino parecchie volte, tra bombe, sparatorie e attentati diretti alla sua persona. Un giorno venne a sapere dalla venditrice ambulante da cui si riforniva di sigarette («una brava musulmana») di essere nel mirino di una banda di sequestratori. «Così decisi di lasciare Baghdad. E poi dicono che il fumo fa male. A me ha salvato la vita», scherza adesso. Dal 2007 padre Gibrail è priore del convento di Alqosh, un grande complesso di edifici ai piedi dell’antico monastero scavato nella roccia di Sant’Hormisda, uno dei patroni della Chiesa caldea. Nel convento sono ospitati decine di orfani i cui genitori sono morti in seguito alla guerra ed alla violenza terroristica. Ne hanno fatto esperienza loro stessi quando, viaggiando su un pulmino, hanno evitato per un soffio l’esplosione di un’auto-bomba.
Lo scorso febbraio, dopo l’ennesima strage di cristiani a Mosul, nelle celle del convento avevano trovato riparo una cinquantina di famiglie, sfollate in seguito alle minacce di morte. Una sistemazione provvisoria che hanno lasciato dopo qualche mese. Pochi però hanno avuto il coraggio di tornare nelle loro case, la maggior parte se n’è andata in Turchia, in Siria e in Giordania avendo come meta finale l’Europa. È una richiesta che mi sono sentito ripetere come un ritornello incontrando i profughi cristiani. Dopo un po’ l’intervista si capovolge e sono loro a fare le domande che spesso si concludono con un’implorazione: «Mi aiuti ad ottenere un visto per l’Italia».
Eppure, c’è qualcuno che ha deciso di compiere il cammino inverso. Come Youssif Dred, 35 anni, da venti rifugiato in Olanda dove, insieme con la moglie Sonia e i suoi tre bambini, ha ottenuto la cittadinanza. È tornato al villaggio natale di Alqosh per stare vicino al padre malato, scegliendo poi di rimanere in Iraq. Al momento ha trovato lavoro in un bar, ma intende coltivare un terreno affidatogli in usufrutto dai monaci del convento. «È la fede che mi ha spinto a questa decisione – racconta –. Sono cristiano e sono iracheno, voglio che la mia Chiesa non scompaia dalla terra in cui sono nato. In Olanda, le chiese sono vuote di fedeli e vengono date agli immigrati musulmani: ma che razza di cristianesimo è il vostro?», chiede provocatoriamente.
Anche Hazim Harboli, 33 anni, è tornato. Con un’idea ben chiara in mente: diventare monaco. Era uscito dal Paese nel 1998, insieme con i genitori si era stabilito in Grecia, dove aveva pure una fidanzata. Nel 2008 ha deciso di rientrare in Iraq. La sua famiglia ha fatto di tutto per dissuaderlo: anche in Grecia si sono tanti monasteri... Ma Hazim, capelli rossi e testa dura, vuole essere monaco caldeo in patria. «Stavo male ogni volta che mi giungevano le notizie di uccisioni di vescovi e preti a Mosul. Ed ho pensato: anch’io sono nato in quella terra, devo prendere il loro posto», dice senza alcuna enfasi. A spingerlo alla decisione irrevocabile di tornare qui e di fare domanda di noviziato al monastero antoniano è stata la tragica vicenda di monsignor Rahho, trucidato barbaramente dai terroristi. Anche in Iraq, terra d’antica fede, semen est sanguis christianorum .