Il DUBBIO sarebbe responsabile, la mancanza di dubbi sarebbe irresponsabile?

Davvero sarebbe dal dubbio che nasce la buona informazione? Cari amici ed amiche del gruppo-rassegna-stampa, se non fosse perché trovo solitamente interessanti gli articoli di “Cooperazione tra consumatori”, avrei trascurato la pagina 24 del numero 07.2010, titolata «E’ dal dubbio che nasce la buona informazione», presumendola come l’ennesima produzione dei maestri del dubbio.

Ma il mio buon pregiudizio sul mensile della Cooperazione, nonché l’interesse per EDUCA[1], mi ha portato a leggere l’articolo che vi giro coi soliti commenti prefissati da CzzC. Peraltro ho concluso la lettura soddisfatto per il contenuto pregno di considerazioni apprezzabili, in qualche parte dissonanti col titolo ad effetto.

[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 16/02/2024; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]

Pagine correlate: maestri di dubbio; responsabilità dell’informazione

 

2010.07.15 Cooperazione tra consumatori, pagina 24 del numero 07.2010:

E’ dal dubbio che nasce la buona informazione

La responsabilità, la libertà, il dubbio. La verità, il pluralismo, il cinismo e la parzialità. Ecco perché la responsabilità di chi opera nelle strutture di comunicazione è culturale.

di Mariapia Ciaghi

Chi fa comunicazione deve porsi il problema di una regola che la strutturi, che la incanali, che la guidi. E lo deve fare in maniera responsabile. I comportamenti responsabili non derivano dalla conoscenza esatta del bene e del male [CzzC: questa asserzione trovo non regga cotanta perentorietà, nonostante che l’aggettivo “esatta” capti il facile consenso derivante dal naturale disgusto verso la verità in tasca. Forse MC sa più di me cosa significhi “conoscenza esatta del bene e del male”, mentre mi pare che solo la conoscenza scientifica si possa fregiare di tale aggettivo, e limitatamente al suo dominio di conoscenza che notoriamente è dentro il perimetro del misurabile, in cui non vedo inscrivibile la conoscenza del bene e del male. Ma supporrei confutabile questa affermazione soprattutto chiedendo a MC come potrebbe definire responsabile o irresponsabile un comportamento a prescindere da una concezione di bene e di male (che riconosciamo madrina del giusto-ingiusto, amica della verità e della libertà): sappiamo, ad esempio, come milioni di innocenti siano stati massacrati con azioni folli, che Hitler, Stalin, Pol Pot ritenevano invece responsabili, come si evince dal parere dei loro fans, che giudicano quelle vittime come inevitabili sfridi della gloriosa lotta per il progresso delle masse]: la responsabilità è un metodo. E il metodo non è un contenuto; il metodo non è infallibile. [CzzC: mi chiedo se MC intenda dire che per la proprietà transitiva anche la responsabilità sarebbe fallibile, cioè potrebbe divenire irresponsabilità]. La responsabilità ha a che fare con la libertà: responsabilità e libertà sono concetti correlati [CzzC: correlati sì, ma non sempre a senso unico: ad esempio un dirigente che intenda esplicare la sua responsabilità nel perseguimento degli obiettivi assegnatigli, talvolta ottempera ad adempimenti che liberamente non avrebbe intrapreso e a sua volta impone ai subalterni adempimenti che essi talvolta avvertono come alienanti la loro libertà di agire diversamente, il tutto senza configurare di norma una violazione dei diritti del lavoro]. La responsabilità presuppone oggettivamente - non cronologicamente – la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità [CzzC: nella realtà accade anche il viceversa: ad esempio, la rinuncia alla scala-mobile da parte del sindacato più responsabile sacrificò la libertà di tenersela, cui invece era abbarbicato il sindacato meno responsabile]. Non bisogna pensare che la responsabilità di chi opera nella comunicazione sia quella di guidare il proprio pubblico verso la verità. Semmai è il contrario: il dubbio è responsabile, la mancanza di dubbi è irresponsabile. L'idea che la comunicazione serva a diffondere la verità e la convinzione che possano esistere un'organizzazione e un sistema di norme in grado di strutturare[2] tutto questo portano al totalitarismo.

[CzzC: perdonatemi la lungaggine che segue, cari amici, ma qui la necessità di discernimento è tanta.

- Sorvolo sul lapsus che traspare da quel “proprio” riferito al pubblico, essendo naturale

- che i lettori preferiscano un articolista che li guida verso un’interpretazione del reale percepita più vera, piuttosto che altri provocanti loro la sensazione contraria;

- che quell’articolista consideri “suoi” quei lettori, in quanto affezionati alle sue analisi-guida,

ed essendo innaturale che disdegni l’effetto “guida” uno che iniziata conChi fa comunicazione deve porsi il problema di una regola che la strutturi, che la incanali, che la guidi”.

- Ma non sorvolo sulla questione più seria, quella che, invocando il concetto di verità (uno dei più complessi in ambito filosofico, socio-politico e perfino scientifico[3]) arriva a giustificare la preferenza per il dubbio fino a porre l’equazioneil dubbio è responsabile, la mancanza di dubbi è irresponsabile”, anche se - leggendo oltre - scopriremo che MC attribuisce al vocabolo “dubbio” un’accezione diversa da quella adusa ai comuni mortali:la responsabilità parte dal dubbio, dall’ammissione della propria parzialità”.

- Condividiamo la ragionevolezza del riconoscimento dei propri limiti (ammetterli è tipico del processo di conoscenza umana e di avvicinamento al vero, non solo per il credente, ma anche per il saggio uomo di scienza che non osa ridurre la totalità dell’essere all’ambito dell’osservabile e misurabile. Peraltro non ci parrebbe definibile propriamente come DUBBIO questo aspetto della gnoseologia o dell’informazione, e sarebbe tutt’altro che irresponsabile: trattasi piuttosto dell’atteggiamento euristico, del criterio conoscitivo del what-if (cosa se): ponderare probabilità, confrontare e prefigurare ipotesi e best practices, non censurare i “perché”, verificare se i criteri interpretativi del reale che mi han passato i maestri (o che implemento da adulto autonomo) corrispondono alle esigenze di significato sul vero-falso, giusto-ingiusto, bene-male, dell’esperienza di vita mia e dei miei compagni di viaggio.

- Per contro osserviamo gran parte della moderna informazione fregiarsi dell’aggettivo responsabile proprio mentre castra la domanda di significato soprattutto delle creature in formazione, tacciando per maestri irresponsabili, oscurantisti, non funzionali alla produttività del sistema, quelli che si attardano sulle domande di significato (vedi le moderne teorie dei sistemi economici e organizzativi che banalizzano le domande sui perché e sulle finalità, trovando molto più produttiva la conoscenza e lo sfruttamento del “così funziona”).

- Esemplifico, citando la stessa rivista a pagina 9 dove il nipote (Natasha) dice chechi educa deve dare una direzionementre sulla stessa riga una nonna (Bruna) diceEducare è difficile. Non sai se quello che fai è giusto o sbagliato”.

Ai miei figli e studenti insegno essere opportuno porsi degli interrogativi, ma una somma di dubbi non farà mai una certezza e mi trovo molto d’accordo, sempre per far parlare testimoni magari più lineari di me, con quanto sostiene su l’Adige 04/07/2010 pag 25 chi hacresciuto sette figli con regole chiare e risate”: “Ci pare che i modelli di educazione oggi proposti manchino di valori certi cui riferirsi: una spessa nebbia dove tutti i gatti sono grigi. Se non sono certo di nulla mi affido alla moda: faccio anch’io ciò che fanno tutti. Sono basi labili e insidiose. I figli, in tutte le epoche chiedono certezze, sapere ciò che si può fare e ciò che è vietato. Educare significa insegnare a scegliere. Oggi decidono con noi ma domani dovranno farlo da soli. Questa è la nostra responsabilità”. Non vi pare un parlare più costruttivo rispetto a il dubbio è responsabile, la mancanza di dubbi è irresponsabile”?

MC mi obietterà che uno è l’ambito educativo, altro è l’ambito della “buona informazione” e questa, come dice il titolo, “nasce dal dubbio”, ma dubito che il differenziale semantico tra buona INFORMAZIONE ed EDUCAZIONE, che pur esiste, sia tanto vasto da poter definire il dubbio come padre della prima e patrigno della seconda, e, più avanti in questo articolo, vediamo la stessa MC appellarsi ad autori che discettano in merito con le categorie proprie dell’EDUCAZIONE – vedi la sfida educativa].

La responsabilità parte dalla libertà, dal dubbio, dall'ammissione della propria parzialità (e dall'accettazione di quella altrui); bisogna fuggire dalla tentazione di imporre agli altri la propria visione della verità. Perché la verità, anche quando la si raggiunge – e ciò avviene sempre in modo limitato - non può mai essere imposta, ma solo proposta. [CzzC: ovviamente. Però, prima che a noi, vorrei che MC ciò provasse a spiegare a certi “responsabili” informatori di sedicenti democrazie orientali (Cina, NordCorea, ...) o della sharia o chaveziste].

Miguel de Cervantes, nella prima parte del “Don Chisciotte", definisce la storia madre della verità, il che vorrebbe dire che la verità non esiste prima che la si scriva [CzzC: la verità che la terra gira attorno al sole sussisteva anche prima che gli scritti umani bocciassero definitivamente le credenze contrarie] e che la verità dei fatti contempla necessariamente una varietà di punti di vista, di voci, di opinioni, di visioni, di racconti, di rappresentazioni della realtà [CzzC: peraltro non tutte equivalenti in termini di approssimazione al vero sussistente]. Questo pluralismo è ciò che deve garantire la struttura della comunicazione in un paese libero; tutelare la possibilità di interpretare, di raccontare e di pensare diversamente è la prima responsabilità di chi opera nella comunicazione. Come ha osservato Claudio Magris, capire la realtà implica selezionarla, ordinarla, sfoltirla, privilegiare nella selva dei suoi innumerevoli fenomeni alcuni fatti a scapito di altri, vedere le cose in una certa luce - e non in un'altra. Questo vuol dire che non c'è, non può e non deve esserci un padrone unico delle notizie [CzzC: anche pochi padroni delle notizie ben inciuciati con i potentati sarebbero pericolosi per la libertà e dignità della persona umana, non occorre aspettare che ce ne sia uno unico per vedere danni al riguardo] in grado di mandare in scena un mondo a sua immagine. Vuol dire che una stessa cosa può essere raccontata in mille modi diversi. Vuol dire anche possibilità di scegliere liberamente cosa raccontare fra mille cose diverse. [CzzC: del citato Claudio Magris, condividiamo che capire la realtà implica selezionarla, … privilegiare nella selva dei suoi innumerevoli fenomeni alcuni fatti a scapito di altri. Ed è ovvio che non deve esserci un padrone unico delle notizie, ma da queste premesse non discende sillogisticamente l’equivalenza dellepossibilità di scegliere liberamente cosa raccontare fra mille cose diverse”, perché, pur essendo ovvia questa possibilità e nessuno venga criminalizzato nelle democrazie occidentali per ciò che sceglie tra le mille cose da raccontare, io mi arrogherei il diritto di definire cattivo informatore colui che ripetutamente scegliesse tra le mille cose da raccontare quelle che avverto come provocantemi solo perdita di tempo nella ricerca della verità. Spero infine che Magris non voglia farci bere l’assioma che il relativismo delle suddette possibilità sia un valore superiore a quello della “buona informazione”, fino a screditare la liceità di aggettivare come “buona” o “cattiva” una qualsiasi informazione tra le mille possibili]. Inoltre ogni cosa può e deve essere interpretata, criticata, e come diceva Charles Baudelaire, per essere giusta, per avere la sua ragione d'esistere, la critica deve essere parziale, appassionata, politica, cioè fatta da un punto di vista esclusivo che apra più orizzonti. Scriveva Enzo Biagi: "Una notizia la si può raccontare in tantissimi modi. Facciamo un esempio: un bambino che vede una biciclettata prende e scappa via. La notizia può essere raccontata così: un bambino la prende perché ha sempre sognato di avere la bicicletta, oppure, il bambino è un ladro, dimostra di essere un precoce delinquente, infine, era un gioco, il bambino non sa che certi giochi vengono contemplati anche dal codice penale. Ognuno ha il suo punto di vista nel raccontare le cose, ma deve farlo con onestà". [CzzC: condivido sia Magris sia Baudelaire, quando affermano che la critica deve essere parziale, appassionata, politica, cioè fatta da un punto di vista esclusivo che apra più orizzonti. Ovvio? Ma non vi pare leggermente in contraddizione con MC sostenente chenon bisogna pensare che la responsabilità di chi opera nella comunicazione sia quella di guidare il proprio pubblico verso la veritàoppurebisogna fuggire dalla tentazione di imporre agli altri la propria visione della verità”. MC mi dirà che il negativo sta nell’imporre, mentre la verità può essere solo proposta, non imposta. Ovvio, ma - leggendola così - dubito che i suoi lettori siano portati a considerare semplicemente parziali e appassionati (alla Magris/Baudelaire) i cattolici che scrivono dissenso rispetto all’aborto superfacile, all’eutanasia degli handicappati agli uteri in affitto; dubito e temo chesiano incanalati e guidatia ritenere tali articolisti impositori di una verità].

"Chi lavora nei mass media non può essere cinico" sono le parole di un grande giornalista, Emilio Rossi, citate ne "La sfida educativa". In uno dei suoi passaggi forse più originali, l'analisi del rapporto-proposta sull'educazione ricorda un principio troppo spesso dimenticato: ciò che arriva al pubblico passa attraverso le scelte e la sensibilità degli addetti ai lavori. E se "la nostra esperienza quotidiana testimonia che il cinismo è l'atteggiamento normale di chi fa informazione", occorre comunque non arrendersi a questa logica. [CzzC: accogliendo con entusiasmo questo invito, osservo che, se ammettessimo come MC che “la verità non esiste prima che la si scriva” non vedo come potremmo definire cinico uno scrittore, essendo lui stesso in quanto semplicemente scrivente uno dei fondatori dell’esistenza della verità].

La qualità nella comunicazione di massa non può non porsi il problema della quantità, il tema del rapporto con un'audience significativa. Il numero di apparecchi televisivi esistenti nel mondo supera il miliardo. Gli spettatori sono molti di più: in tutti i paesi industrializzati il piccolo schermo è presente nella quasi totalità delle abitazioni (con percentuali che oscillano fra il 96% e il 100%), ed è più probabile trovare nella camera di un bambino un televisore piuttosto che trovare un libro. Il tempo medio che gli italiani passano davanti al televisore è di circa quattro ore al giorno. Il tempo medio che dedicano all'ascolto della radio è di circa tre quarti d'ora mentre quello che dedicano a leggere quotidiani o riviste è poco più di un quarto d'ora al giorno. In Italia, in ogni momento della giornata, davanti alla televisione ci sono poco meno di 10 milioni di persone, la televisione è diventata lo spazio dove si articola il discorso pubblico e dove si articola, in definitiva, la democrazia. Dove si riconosce la collettività quando partecipa al proprio diritto a essere informata, quando si diverte, si emoziona, ricorda, condivide una cultura, forma la propria cultura, la propria storia, si sente un'unica cosa, una "togetherness" che dovrebbe responsabilmente farsi carico del multiculturalismo, della possibilità di convivenza di identità diverse [CzzC: glielo andasse a spiegare a qualche prof. di UniTN che ironizza gli studenti che non condividono certe tesi “contro l’identità” sostenute dall’omonimo testo di Francesco Remotti]. Dovrebbe infatti essere compito anche dei mezzi di comunicazione conservare la memoria delle nostre molteplici appartenenze, quella della radice ultima che tutti ci accomuna. Contestare ogni forma di fanatismo per ricostruire, rifondare, le basi di un comune sentire, le basi etiche che ci fanno riconoscere parte di un destino condiviso. Dovremmo riconoscere che questo è anche il nostro interesse, l'interesse di ognuno di noi, ormai indissolubilmente legato a quello di tutti gli altri, anche a quello di chi è più lontano da noi. Dunque per tutelare la nostra identità, etnica, culturale, religiosa, dovremmo costruire sul dialogo, e non sull’esclusione, la nostra identità, che non è mai statica. Le nostre identità in divenire. Questo non significa annullare le differenze, ma piuttosto valorizzarle. [CzzC: bellissimo, ma che direbbe ai maestri di odio? Ad esempio i ben pagati che insegnano a questo immigrato a trattare le donne così?] La nostra responsabilità sta anche in questo ed è, al di là delle strutture - che non possono e non debbono prefigurare un contenuto, ma solo preservare una regola di libertà - individuale. Assumersi la responsabilità, su questo punto, richiederebbe infatti, da un lato, un sistema di regole in grado di garantire la complessità culturale e, dall’altro - da parte di chi guida le strutture della comunicazione - l'impegno a difendere la propria autonoma capacità di lettura e di  interpretazione della realtà legando le diverse voci come un coro; non come un insieme stonato. [CzzC: glielo andasse a spiegare alla massoneria inglese

- che, per rispettare la sharia radicatasi in certi quartieri del Regno e per preferenza,

- lascia scacciare dall’autobus i ciechi accompagnati dall’impuro cane

- o lascia condannare le donne dalle locali corti islamiche preferite dalle controparti maschili che vogliono vincere la causa più facilmente

- o vieta le battute sull’islam (i musulmani sarebbero minoranza da tutelare) mentre incoraggia gli insulti al Vaticano (i cattolici non avrebbero bisogno di tutele)

- o che, per non stonare nel coro con gli omosessuali,

- toglierebbe i finanziamenti pubblici al consultorio di matrice cattolica che rifiutasse di procurare a due gay l’adozione di un bimbo].

C'è chi pensa che la comunicazione, per essere obiettiva, non debba prender parte. Ma non prendere parte vuol dire essere distratti, ignavi, conniventi. Ciò che distingue la democrazia dai regimi è invece la tutela del dissenso, la libertà di dissenso, l'esercizio della responsabilità come scelta di libertà, non l'obbligo del consenso [CzzC: condivido, purché chi parla garantisca anche a chi non la pensa come lui questa libertà, e non faccia come Voltaire che, mentre predicava libertà di parola, vergava le sue lettere con schiacciate l’infame all’indirizzo dei cattolici] La comunicazione che serve a costruire, o consolidare, il consenso, che non esercita la libertà di critica, che coltiva la rassegnazione o il fervido entusiasmo ha poco a che fare con la democrazia [CzzC: che non coincide con l’assolutizzazione del criterio di maggioranza]. I contenuti che vediamo nei media o in tivù sono prodotti da un'élite professionale e culturale composta di giornalisti, responsabili di palinsesto, autori, registi, produttori. [CzzC: a pag 8 della stessa rivista leggiamo l’emergere di un altro canale informativo ad alta capacità comunicativa “I giovani sono diventati professionisti della comunicazione a distanza: il 51% di loro usa il pc per più di due ore al giorno ...tra quelli che usano internet il 61% lo fa anche per frequentare i social network”. Prova ne siano recenti successi elettorali di chi si è ben avvalso anche di questo canale oltre che di quelli tradizionali]. Certo, ci sono vincoli esterni e oggettivi nell'autonomia del loro lavoro, ma la responsabilità della persona non può essere mai messa fuori gioco. Per questo fare appello alla personale responsabilità degli operatori della comunicazione non è tempo sprecato come non lo è investire sulla formazione, non solo professionale, ma anche culturale ed etica, dei giovani che desiderano intraprendere questo difficile mestiere. [CzzC: pletorata da quarantenni ed ultra, con molti posti di lavoro insidiati dall’emergere dei canali emergenti di cui sopra, temo che la categoria professionale in parola possa offrire ai giovani ben pochi contratti a tempo indeterminato nei prossimi 10 anni. Ma questo sarebbe un altro film, rispetto al titolo].

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[1] la buona informazione non è estranea alla buona educazione

[2] se avesse detto “imporre” al posto di “strutturare” le avrei concesso l’asserzione

[3] perfino la galileiana formula “F=ma” non è più così vera quando osservatore ed osservato viaggiano con velocità relative prossime a quelle della luce