PITESTI (Romania): NEL «GENOCIDIO DELLE ANIME»: 1949-1952 per rieducare gli oppositori del regime con efferate torture ...

inducendo carnefici gli stessi detenuti; barbarie democraticamente celata per timore degli ancora influenti nostalgici del comunismo

[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 24/11/2019; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]

Pagine correlate: libro nero del comunismo; barbarie; Romania, gulag; genocidi

 

2010.mm.gg [CzzC: trascrivo da ares/bistolfi/fertilio.pd. Vedi anche <Corriere 28/03/2010>: Romania, l'horror estremo - Dario Fertilio racconta l’esperimento carcerario di Pitesti nel libro "Musica per lupi"]

 

C'è un punto massimo della barbarie, un fondo oscuro della violenza? Sì, e ha nome Pitesti, città a centodieci chilometri a nordovest di Bucarest, la capitale della Romania che un tempo non troppo lontano aveva giusta fama di «Parigi dell'Est». Qui, tra il 1949 e il 1952, a guerra finita dunque, si consumò ciò che un sommo benemerito della storiografia e della memorialistica universale, Alexander Solženicyn, definì, in Arcipelago Gulag, «la più grande barbarie del mondo moderno». Pitesti è la città dei tulipani, un'anonima città della provincia romena. A parte i tulipani, se non fosse per quei quattro scarsi anni, anche in Romania, nessuno si ricorderebbe di questo agglomerato urbano. Meno che mai qui in Italia, Paese che percepisce questa nazione sorella come entità più o meno reale, sempre lontana, e, quando vicina, filtrata dalle soffocanti spire del giornalismo più bieco e razzista. Ed è un giornalista, ma di altra pasta, a raccontarci dell'inferno di Pitesti. Dario Fertilio, del Corriere della Sera, ha diretto la partitura di Musica per lupi. Il racconto del più terribile atto carcerario nella Romania del dopoguerra (Marsilio, Venezia 2010, pp. 172, euro 15), l'unico libro in italiano su quello che oggi è stato ribattezzato «Esperimento Pitesti» o, meno tecnicamente ma con più eloquenza, «il genocidio delle anime». Leggere il libro non aiuta a capire. Nel senso: si capisce tutto sin troppo bene, e qualcuno non vorrebbe. Alla periferia di Pitesti c'era un carcere, che insieme a Gherla, Ji-lava, Aiud, Suceava, Brasov, faceva parte dello scacchiere rosso, colore al contempo del sangue e d'una delle più perverse ideologie del Novecento. Nel 1949, liquidati i Legionari di Codreanu, assassinato nel 1938, e il generale Antonescu, fucilato nel 1946, il governo comunista, eteroguidato dall'Unione Sovietica di Stalin, decise di trasformare Pitesti nel luogo della suprema rieducazione, nel perfetto laboratorio in cui la retrograda «scienza» marxista imprimeva all'evoluzionismo una marcia indietro: a Pitesti l'uomo diventava bestia.

 

La cerchia del sadismo

 

Scrive Fertilio: «Il sangue... scorreva copioso a Pitesti, finendo con l'assumere un significato anche simbolico, rituale. Una discesa per tappe, o bolge, al punto di non ritorno. Laggiù in fondo il cerchio abissale del sadismo si chiudeva più che le giaculatorie blasfeme, le corone di spine, le masturbazioni coatte, le canzoni natalizie pervertite, le preghiere dei morti scabrose, le orge profumate di incenso, le eucaristie impartite con gli escrementi eccetera, si dava corpo al progetto di creare in laboratorio un'umanità pervertita». Pitesti «è giù in fondo. Oltre, non c'è più niente». Che cosa accadeva di così terribile? Di tutto. Inenarrabili violenze, senza pietà inferte al corpo e all'anima, sino a ridurli in poltiglia. «Nude, le vittime designate se ne stanno distese al gelo sul cemento del corridoio», scrive l'autore, «durante la mezz'ora seguente, vengono picchiate con forza e metodo, senza pause o esitazioni, come carne da frollare in macelleria. Su schiene, gambe e teste si abbattono manganelli di cuoio e barramine appuntite, utilizzate altrimenti per gli scavi nelle miniere. A poco a poco, sotto la grandine dei colpi, cessano anche quei futili movimenti istintivi di chi cerca riparo. Manganelli e barramine affondano liberamente, ora, come in sacchi vuoti. Il pavimento del corridoio è pieno di sangue e urina». Altrove apprendiamo: «Cornel Luca, calpestato giorno e notte è stato obbligato a inghiottire una grande quantità di sale e poi impedito di bere l'acqua. Le sue reazioni fisiologiche sono state devastanti. Nella bocca aveva una grande ferita. La sete era tremenda, più forte della fame, lo faceva impazzire. Prima, quando era obbligato a bere urina, lo faceva con tanta sofferenza ma adesso con la sete che aveva voleva bere di sua iniziativa e non veniva lasciato. Mentre lavava il water, succhiava le gocce d'acqua che cadevano dal panno umido. Qualcuno lo ha visto ed è stato selvaggiamente picchiato e nuovamente obbligato a inghiottire un'altra quantità di sale» (Viorel Gheorghita, Et ego. Sarata-Pitesti-Gherla-Aiud Scur-ta istorie a devenirii mele, Editura Marineasa, Timisoara 1994, p. 154). Il lavorìo era volto a raggiungere però l'anima. Ecco il meccanismo. A Pitesti non c'erano guardie, nessuna. Nessun uomo in divisa, esplicitamente incaricato dal regime, sfiorava le vittime. Anzi, salvo il supercriminale che fu il generale Nikolski, capo della Securitate, e un paio di altre persone, in quel carcere non c'era pressoché presenza del governo. I seviziatori erano gli stessi detenuti. Parola d'ordine: passare dall'altra parte. «È così semplice. Tu confessi, e così passi dall'altra parte. E ripeti ancora la stessa cosa ogni giorno, anche dopo che hai confessato e dichiarato e promesso qualsiasi cosa. Bisogna confessare tutto, fino all'ultimo segreto», racconta ancora Fertilio. All'inizio si erano scelti dei «volontari», segregati per ragioni politiche (Pitesti è in quegli anni un carcere esclusivamente politico). I quali, per salvarsi la pelle, erano invitati a scavalcare il muro, ossia trasformarsi da vittime in carnefici. Solo dopo, beninteso, aver oltrepassato, mai indenni, le procelle della violenza.

 

Il rito della tortura

Tre fasi prevedeva la tortura: smascheramento esteriore, smascheramento interiore, autobiografia. Nella prima fase la vittima era «invitata» a rivelare i nomi dei nemici politici del regime: amici, parenti, conoscenti. Nella seconda toccava al soggetto rivelare le proprie attività e i propri pensieri di «nemico del popolo», di «borghese». Nella terza e in tutto e per tutto estrema fase, colui che era sopravvissuto ai pestaggi e alle sevizie, doveva raccontarsi. Raccontare di sé e della propria famiglia. Atti irriferibili, quali incesti, coiti proibiti da Dio e dalla natura, luridi traffici, del padre e della madre. Vomitare il più putrescente fango: tutto menzogna. Tale era la natura orrifica delle torture, soverchiante ogni forza umana, che l'individuo, da quel momento, non si sarebbe mai più potuto guardare allo specchio.

 

Turcanu, il capo dei seviziatori

Eugen Turcanu, capo dei seviziatori, un ventinovenne mastodontico e subdolo, dice a un gruppo di detenuti, alla vigilia di Natale: «Voi dovete finirla con il passato... con tutto il passato... bisognerà strappare il marcio che avete dentro, ripulire la feccia... e dunque togliervi le maschere, tutte, dalla prima all'ultima. Dovrò smascherarvi... Esistono soltanto due possibilità... Voi uscirete di qui o morti o rieducati... Svuotatevi, fatelo completamente, e forse vivrete. Io sono il padrone della vostra memoria». Non sentiamo, nell'eco di Auschwitz o della Lubjanka, parole altrettanto dure, che poi si riveleranno, in migliaia di casi, tristemente vere. Io non userei per Pitesti l'espressione «girone dantesco», ché nella Commedia Dante risale, passa dagli stadi inferi ai superni. A Pitesti ciò non è punto possibile: da un purgatorio, qual era la Romania appestata dal morbo rosso, si discendeva grado a grado nei visceri del demonio. Non c'è ombra di redenzione, a Pitesti, se non quella rovesciata. Nel 1952 Pitesti venne chiuso, e il regime impiantò un processo farsa (in Romania, ahinoi, altri ve ne saranno), che vide la condanna a morte, eseguita, di Turcanu e dei suoi sgherri. Perché un processo? Non era lo stesso regime ad aver voluto Pitesti? Certo, ma andiamo con ordine. La pubblica accusa denunciò Turcanu per i crimini commessi nel carcere, ma non si assunse - ovviamente - la responsabilità di quanto accadde, anzi. Le condanne a morte furono comminate perché, sostenevano gli uomini del regime, i detenuti responsabili dell'Esperimento sarebbero stati al soldo di Horia Sima (l'ex braccio destro di Corneliu Codreanu) per infangare il regime. Una farsa doppia, giudiziaria e politica. Difficile infatti credere che un regime processi sé stesso, pur per un'azione segreta qual era Pitesti e pur scaricando le colpe su nemici politici esterni del regime. No, i reali motivi, o almeno quelli che si possono trarre conoscendo le vicende politiche europee e romene di quegli anni, sono altri. Nel 1952, anno della chiusura di Pitesti, all'interno del Partito romeno dei lavoratori (il futuro Partito comunista romeno) ci fu una resa dei conti: l'ala moscovita e quindi staliniana fu messa in minoranza ed estromessa dalla politica del partito e da quella della Romania. Artefice di questa operazione fu il capo della fazione nazionale del partito, quel Gheorghe Gheorghiu-Dej, che diventerà capo dello Stato nel 1961, rimanendovi sino al 1965, gran protettore di Ceausescu, che grazie a lui diventerà prima segretario del partito e poi, nel 1967, presidente del Consiglio di Stato, instaurando, l'anno successivo, la dittatura.

 

Ana Pauker

Chi era invece il più importante esponente della fazione stalinista del partito? Ana Pauker, pseudonimo di Hannah Rabinsohn, ebrea ortodossa e sionista. Un pezzo grosso, enorme anzi, del partito, e la donna che diede l'avvio, insieme ad altri, non solo a Pitesti, ma altresì a tutto l'universo concentrazionario romeno istituito per colpire i nemici politici. Il nesso è chiaro, evidente: con l'estromissione della fazione moscovita, terminò anche l'Esperimento, e i responsabili (materiali, si badi, non certo quelli morali) di Pitesti furono processati e uccisi. Si trattò più che altro di una sorta di regolamento interno al partito. Nei successivi anni, per quanto crudo, il regime comunista non toccò mai i picchi irreali di Pitesti, nemmeno con Ceausescu al potere. L'obiettivo di Pitesti era rieducare i nemici politici. Eppure c'è un altro aspetto, sotterraneo ma più vero.

 

Persecuzione anticristiana

Nel maggio scorso, in un pubblico incontro ad Acqui Terme, invitato assieme a Fertilio per presentare il suo libro, dall'Assessore alla Cultura Carlo Sburlati, ebbi a dire che Pitesti si presenta soprattutto come una profonda operazione anticristiana. Quel popolo così radicato nella propria gloriosa storia cristiana, veniva fatto scorrere, come collo in nodo scorsoio, attraverso le peggiori blasfemie. Non è caso qui riportare i satanici dettagli: vada però il lettore a leggere, ché scoprirà un nuovo e deforme volto del comunismo, l'immondizia di Belzebù. Con acume e nobiltà scrive un gran conoscitore di questa tragedia, il cineasta e insegnante romeno Sorin Iliesiu: «Malgrado tutto, il genocidio delle anime non è avvenuto perché l'anima è immortale e questa convinzione è stata la speranza dei detenuti condannati. Solo la fede in Dio li ha salvati». Per chi si è salvato, dacché molti a Pitesti hanno terminato il corso dei loro giorni, molte volte restando vivi. A riprova di questo, vi è che la più parte dei detenuti di Pitesti erano Legionari, ossia seguaci di Corneliu Zelea Codreanu, che una storiografia ottusa ha voluto tratteggiare come fascista e antisemita, quando né fascista, né antisemita furono né lui, né i suoi seguaci. Erano, i Legionari, semplicemente dei cristiani, i quali conducevano una vita esemplare sotto molteplici aspetti (Nota1).

Chi ha sistemato la verità su Codreanu è stato il già citato Sburlati, in un volume stampato da Volpe nel 1970, Codreanu il Capitano, primo saggio italiano sul fondatore della Legione dell'Arcangelo san Michele (poi Guardia di Ferro), che lo scrivente sta tentando di far ripubblicare in nome di quel processo di revisione storiografica intelligente che da qualche anno molti tentano di condurre su taluni fatti e personaggi del XX secolo. Più di recente è stato Giano Accame, nel postumo La morte dei fascisti (Mursia), a ripensare la vulgata su Codreanu, peraltro citando ampiamente Sburlati.

 

Una memoria scomoda

Qual è oggi l'atteggiamento dei romeni nei confronti di Pitesti? Ambiguo. Tutti, o quasi, sono a conoscenza dei fatti che là dentro ebbero luogo (parlo delle classi colte, peraltro le più colpite), ma pochi, anzi pochissimi parlano. Paura, vergogna, timori del più vario genere? Non saprei, certo è che chi ne vuol parlare pubblicamente trova ostacoli, e non pochi. È il caso di Iliesiu. Il 31 marzo 2008, il regista lanciò da Bucarest un appello (lo si può vedere, insieme ad altro interessantissimo materiale, sul sito www.thegenocideofthesolus.org, in cui dice tra l'altro: «L'Esperimento Pitesti è poco conosciuto anche in Romania. Alexander Solženicyn riteneva che questo esperimento fosse "la peggiore barbarie del mondo contemporaneo". Lo storico Francois Furet... descrisse questo fenomeno come "una delle esperienze più terribili del nostro tempo indirizzata alla disumanizzazione dei detenuti". Siccome la mia intenzione è di far conoscere agli altri questa invenzione diabolica, ho preso la decisione di realizzare un film documentario (lungometraggio) in cui saranno inserite le testimonianze degli ultimi sopravvissuti, che daranno anche il loro contributo alla ricostituzione dell'esperienza della detenzione. In questo senso ho messo a punto un progetto nella speranza che lo Stato romeno darà il suo contributo, ma il progetto è stato rifiutato per due volte da coloro che non desiderano che la verità sia conosciuta. Comunque, io sono deciso a portare a termine questo progetto. Con le mie risorse ho iniziato a fare i primi filmati con le testimonianze di alcuni sopravvissuti e poi ho selezionato per voi dei frammenti brevi. Il materiale grezzo di queste testimonianze costituisce un eccezionale documento storico (si stimano 150 ore di filmato). I superstiti hanno più di 80 anni e la loro salute risente dell'esperienza passata. Dobbiamo sbrigarci a intervistarli (Nota2)»

Ma la colpa di questo silenzio non è dei romeni, se non solo di certuni ancora legati a schemi mentali, e politici, di antica memoria ideologica. Una gran parte di responsabilità ce l'hanno i governi democratici e supini davanti al pluridecennale ricatto ideologico che fa dell'anticomunismo una sorta di perversione, un tabù, ancora a vent'anni di distanza dal crollo del muro di Berlino. Nonostante il comunismo sia morto, sopravvivono e operano ancora individui, anche ad alti livelli, che di quel tragico e perverso mondo hanno non solo nostalgia, ma anche rispetto o almeno timor reverenziale, e pertanto non possiedono il coraggio di tirar fuori tutto. Prova, tra le tante, ne sia che storici non già anticomunisti ma semplicemente onesti, stentano a far accettare, nelle scuole e nelle università e a livello politico, la verità scoperta sulle atrocità commesse dai regimi comunisti. A questo si aggiunga che la Romania, per gli italiani, solo oggi e in maniera ancora incompleta e periclitante, sta diventando una realtà culturale e politica con cui fare i conti (e non solo certi «affari», come hanno fatto e seguitano a fare molti nostri connazionali in quel Paese). Le possibilità che ci offre Dario Fertilio col suo libro sono molteplici. Innanzitutto sapere non solo di un orrendo crimine contro l'umanità, ma altresì guardare in faccia un crimine contro i cristiani e uno dei volti più deformi e turpi del comunismo, che nel tempo buono delle democrazie ci si ostina a dimenticare. Pitesti la si ricorda oggi per i suoi sontuosi tulipani. Nella sua contraddittoria simbologia, il meraviglioso fiore venuto da Oriente compendia quasi alla perfezione ciò che avvenne settant'anni fa in quel carcere e come oggi l'Esperimento è percepito. Il tulipano significa Amore perfetto, che è quello per Dio dimostrato dai detenuti, ma altresì magnificenza, quella tragica dell'orrore, e la mancanza di discernimento: dei responsabili di ieri e di chi oggi tace.

 

Luca Bistolfi

 

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Nota1: Sull’antisemitismo dei Legionari molto si è scritto a sproposito, senza la minima contestualizzazione storica e senza conoscere la storia romena di quei primi anni del Novecento, né quella del movimento. Purtroppo non ho qui lo spazio sufficiente per diffondermi in spiegazioni circa questa accusa. Suggerisco la lettura, oltre che del Diario dal carcere di Codreanu (edizioni Ar), altresì di G. Vitale, La svastica e l’Arcangelo. Nazionalismo e antisemitismo in Romania tra le due guerre (ed. Il Cerchio), M. Rallo, L’epoca delle rivoluzioni nazionali in Europa 1919- 1945, vol. III dedicato alla Romania (ed. Settimo Sigillo) e F. Bradescu, Le tre prove legionarie (Novantico editrice)

Nota2: Ho trascritto la traduzione ufficiale, che si trova sul sito, con alcune lievi modifiche utili solo per rendere il testo maggiormente comprensibile. Il 16 settembre prossimo, lo scrivente sarà assieme a Dario Fertilio all’Accademia di Romania in Roma per presentare Musica per lupi. Ospiti d’onore saranno Iliesiu, che proietterà e commenterà parte del suo documentario, e un sopravvissuto del carcere di Pitesti, ambedue per la prima volta in Italia