Tratto da http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_diocesi/207/2010-09/22-445/Relazione%20mons.%20Eugenio%20Ravignani%202010.doc

ASSEMBLEA PASTORALE DIOCESANA

 

Trento, 18 settembre 2010

 

 

 

“SI APRIRONO LORO GLI OCCHI E LO RICONOBBERO”

DIALOGARE PER COMPRENDERSI

 

Mons. Eugenio Ravignani

 

 

            Il mio primo saluto lo devo a mons. Arcivescovo, a cui mi legano non solo i vincoli della comunione nella grazia e nel ministero, ma un vivo sincero fraterno affetto. A lui dico il mio grazie per l’invito che ha voluto rivolgermi. E a voi tutti – sacerdoti, religiose e religiosi, sorelle e fratelli laici – auguro grazia e pace.

 

            Il tema che mi è stato affidato vi introduce nel secondo momento del vostro piano pastorale “Viandanti sulle strade di Emmaus”. So che lo scorso anno la vostra Chiesa ha voluto ascoltare, ora s’impegna a comprendere. Ma per farlo sa che prima occorre dialogare.

 

La stessa formulazione del tema sembra dare ragione di questa mia presenza oggi tra voi. Negli anni del mio servizio quale vescovo e prima sacerdote nella diocesi di Trieste ho vissuto, anno dopo anno, l’affermarsi di una esperienza di dialogo sempre più aperto con una città che si dice di “cultura laica”, che se pur manifesta rispettosa attenzione alla Chiesa ed accetta di confrontarsi su temi di rilevante interesse, potrebbe aver influito nel tempo, ed ancor oggi, in ambiti diversi, su una appartenenza ecclesiale debole. E tutto ciò in una città che dalla sua stessa storia ha ereditato una pluralità di lingue, culture, religioni e tradizioni diverse, e che, pur tuttavia, lentamente e con paziente fatica, delle diversità cerca di fare una ricchezza condivisa, contribuendo a costruire concordia e pace.

 

Forse si è pensato che, proprio per aver percorso un tratto di quel cammino, incoraggiato dai vescovi che mi hanno preceduto, avrei potuto dire qualcosa a voi che come Chiesa vi volete accostare a coloro che, per diversi motivi, hanno lasciato alle spalle un’esperienza ecclesiale accompagnandovi a loro in un dialogo aperto e cordiale che apra i loro occhi e in voi si riconoscano fratelli. Non accadde forse così ai due discepoli che s’allontanarono da Gerusalemme, quando il Signore li raggiunse sulla via, con essi nel dialogo riaccese la speranza fino a quando a sera si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero nello spezzare il pane (v. Lc 24, 30).

 

 

1.         Il dovere e i requisiti del dialogo

 

1.1.            Mi piace porre all’inizio di questa nostra riflessione un’affermazione di papa Paolo VI. Egli parla del dialogo

1.2.             come del nome che si dà allo slancio apostolico ed afferma: “La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere, la Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio (Paolo VI, Ecclesiam suam, 6 agosto 1964, n. 67). A cui aggiungo l’esortazione del Concilio Vaticano II: “I fedeli, dunque, vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo e si sforzino di penetrare il loro modo di pensare e di sentire di cui la cultura contemporanea è espressione” (Gaudium et spes, 62; EV 1531).

 

            A voi, Chiesa che vive in Trento, oggi si chiede, anzitutto, di assumere uno stile di dialogo nelle relazioni con coloro che condividono la vostra scelta di fede: il dialogo, infatti, appare necessario per una maturazione sia personale che della comunità: nessuno è così perfetto da non aver bisogno dell’altro. Posso rispettosamente chiedervi di non chiudere il dialogo nemmeno con coloro che si sentono ai margini della vita ecclesiale, spesso con viva sofferenza, perché non sembrano loro accettabili per la loro rigidità alcuni interventi nel campo dottrinale e morale?

 

E a voi si domanda pure di essere ben consapevoli di avere una parola da dire, un messaggio da comunicare, un colloquio da aprire e mantenere vivo anche con le donne e gli uomini che qui vivono la loro vita ispirandosi a valori che, pur provenendo da diverse scuole di pensiero, hanno dato senso e significato alla loro presenza nella vita e nella storia.

 

            Vorrei ci chiedessimo se siamo davvero convinti che occorra accostarci “quanto più possibile all’esperienza e alla comprensione del mondo contemporaneo”. Ma so che voi tutti con me siete convinti che questa è condizione prerequisita perché il messaggio cristiano possa entrare oggi nel pensiero, nella parola, nelle scelte di chi vive accanto a noi le inquietudini e le attese di questo nostro tempo. La Chiesa, che ancor oggi abita la storia degli uomini, deve prendere atto della sfida che la cultura le pone e non può sottrarsi al dovere di aprire con tutti un dialogo leale, sereno e fiducioso, perché a tutti è debitrice dell’annuncio del vangelo della salvezza.

 

1.2.      Ho molto apprezzato la chiarezza con cui il vostro piano pastorale 2009-2012 ha presentato “l’inedita complessità delle situazioni, con la crisi dei valori tradizionali, l’indifferenza nei confronti della dimensione religiosa, il relativismo morale dei comportamenti e delle scelte di vita, il fenomeno della multiculturalità e il contatto con visuali religiose e culturali diverse dalla nostra” (Piano pastorale 2009-2012, pag. 9).

 

A questa crisi della cultura contemporanea ha fatto riferimento papa Benedetto XVI, come ad una cultura secolarizzata che non solo spinge a prescindere da Dio e dal suo progetto, ma finisce per negare la stessa dignità umana, in vista di una società regolata solo da interessi egoistici”. È stata frequente la sua denuncia di una “eclissi di Dio” o “del rischio dell’amnesia di Dio”. Ha voluto ripeterla pure nel messaggio rivolto ai giovani in preparazione alla XXVI Giornata mondiale della gioventù: “La cultura attuale, in alcune aree del mondo, soprattutto in Occidente, tende ad escludere Dio, o a considerare la fede come un fatto privato senza alcuna rilevanza nella vita sociale… si constata una sorte di eclissi di Dio, una certa amnesia, se non un vero rifiuto del cristianesimo e una negazione del tesoro della fede ricevuta, col rischio di perdere la propria identità profonda” (Benedetto XVI, Messaggio, 6 agosto 2010, n. 1).

 

Ed è forte e ripetuto il suo appello che non possiamo lasciar cadere: “In questo momento non può mancare la testimonianza coerente, generosa e coraggiosa dei credenti perché possiamo guardare insieme al futuro in cui libertà e dignità di ogni uomo e di ogni donna siano valorizzate come valore fondamentale e sia valorizzata l’esperienza della fede come dimensione costitutiva della persona” (Benedetto XVI, alla XXIV assemblea del Pontificio Consiglio per i Laici, 21 maggio 2010).

 

1.3.      Ma sarà possibile un dialogo con questa cultura? L’apertura della Chiesa troverà accoglienza? Oppure al suo messaggio ci si chiuderà? E quali ne saranno le condizioni?

 

            Il dialogo, evidentemente, suppone una reciprocità riconosciuta. L’altro a cui voglio aprirmi deve essere considerato da me come persona disposta ad accogliere la mia parola, non solo, ma a darmene risposta. Altrimenti in partenza sarebbe un monologo senza senso e senza esito. “Il dialogo autentico tende a far nascere tra gli interlocutori una vivente reciprocità”: vi è qualcosa di comune ai due che li rende vicendevolmente pronti ad accogliere e a dare, in uno scambio che si realizza in un clima di profondo e sincero rispetto e di condivisa simpatia. E di questa reciprocità è garante un duplice rispetto, della propria identità, anzitutto, che all’altro deve rivelarsi senza veli di improvvidi silenzi, ma anche dell’identità dell’altro che riteniamo pur portatore di valori e di esperienze.

 

            Ma dialogo a quale scopo? È apprendere (come ci insegna il Concilio stesso) a condividere la gioia della fede poiché ognuno è amato da Dio. Il desiderio di conoscere e l’amore all’altro ci porterà quindi ad intraprendere noi stessi il primo passo per il dialogo, anche se all’inizio ci può sembrare di trovarci di fronte ad un muro. Ma noi crediamo nella parola di Dio: “Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede (1Gv 5,4). Non ci muove alcuno spirito di conquista, ma di servizio verso gli altri”.

 

 

2.         Gli spazi del dialogo

 

2.1.      Non sfugge certo a nessuno la necessità di un dialogo con la cultura rappresentata da uomini del pensiero, delle lettere, delle arti e della scienza. E perciò penso che la Chiesa non possa dirsi estranea al mondo accademico dell’università, ai centri ove una cultura si forma e si elabora e là dove essa si promuove, anche se essa sembrasse prescindere – o in qualche caso prescindesse di fatto o per metodo – da un’accettazione del soprannaturale, così come con quella che, se non lo esclude, per lo meno lo mette in parentesi nella quotidianità del vivere. Donne e uomini cristiani sono già presenti all’interno di queste realtà, con l’autorevolezza dei maestri e con la loro riconosciuta preparazione dottrinale e scientifica. Occorrerà che la loro presenza non sia mortificata da un silenzio magari suggerito da ingiustificati timori e da scelte ritenute di opportuna prudenza. Occorrerà che parlino con una voce a cui dà forza la loro coerente testimonianza di vita. So bene che non è facile. A queste persone, però, non si può far mancare il sostegno della comunità cristiana che ad esse aprirà spazi di cordiale incontro e di chiaro confronto.

 

2.2.      Ritengo che, seppure difficile e delicato, non possa mancare un dialogo con gli uomini e le donne cristiani impegnati nell’ambito della politica, quale che sia il livello delle loro responsabilità nei confronti della società civile. Vi saranno occasioni di incontro da accettare ed anche da promuovere che possano far conoscere loro più approfonditamente la dottrina sociale della Chiesa, non solo, ma quando occorresse, facilitino il confronto schietto su determinati problemi, percorrendo con responsabile autonoma serenità la strada delle possibili soluzioni nei difficili campi della convivenza sociale e politica.

 

Se mi si chiede come ci si sia mossi in questo campo a Trieste, posso dare qualche notizia, a cui premetto una informazione. Che la città sia di cultura laica può in parte essere conseguenza non del tutto dell’insofferenza del pensiero liberale e del movimento irredentista italiano nel primo ‘900, e prima ancora, nei confronti di una Chiesa ritenuta espressione della politica austriaca e perciò avversa alle aspirazioni della popolazione italiana. Oggi però, la laicità se ancor oggi caratterizza la cultura triestina si presenta come rispettosa ed aperta ad un dialogo con la Chiesa.

 

            Occorreva attivare strumenti ed aprire spazi a tale scopo. Sono sorti alcuni centri culturali, con diverse accentuazioni di interesse, da quello della scienza a quello della riflessione filosofica e teologica e della problematica sociale e politica. Il centro culturale Veritas fu il primo a nascere negli anni ’60 per iniziativa coraggiosa di un gesuita, segnò e segna ancor oggi un rapporto impegnativo e fecondo con la città; il Centro Universitario di Etica e Scienza (CUES), riunisce periodicamente docenti universitari per l’approfondimento dei problemi che si pongono alla coscienza morale; più tardi inizia la sua attività lo Studium fidei, con una programmazione intensa e seria di incontri relativi alla riflessione filosofica e teologica, con nomi eccellenti e la collaborazione di alcuni docenti universitari; infine il centro Lorenzo Bellomi, promosso da Comunione e Liberazione, offre apprezzate occasioni di incontro e di dibattiti. Significativo per la presenza e per la feconda attività il Centro culturale dei cattolici sloveni. Il Servizio diocesano per la cultura segue queste diverse attività, rispettando l’autonomia dei diversi centri, e ogni anno organizza il convegno residenziale a settembre su temi di temi di attualità e di interesse ecclesiale.

 

2.3.      Ma non meno necessario è un dialogo con la cultura che si esprime nel comune sentire popolare. Noi cristiani dobbiamo dialogare pure con una diffusa cultura che chiamerei dell’indifferenza nei confronti del problema religioso, per cui, nel pensiero se non nella prassi, si ritiene che ogni religione possa essere buona, e che, comunque bastino anche l’umana onestà, la rettitudine morale, la ricerca della giustizia, la solidarietà. Da qui, e non lo ignoriamo certo, nasce un relativismo etico e morale, che, se non esplicitamente approva, finisce per giustificare comportamenti inammissibili e denuncia la grave carenza di una vera fondazione etica.

 

Anche con coloro che vivono questa cultura dobbiamo dialogare. Potremmo dimenticare che ne viviamo anche noi insieme con loro? Ma ancor meno possiamo dimenticare che ad essa siamo debitori di un annuncio del vangelo. Ciò che esige anzitutto una prossimità non una lontananza, con umile chiarezza e dignità. Senza subire passivamente o rassegnati l’ingiusta sensazione di una nostra inferiorità, ma anche senza fare della nostra fede – di cui ci è stato fatto dono – la ragione di una nostra pretesa superiorità. Ciò che, una volta ancora, sarebbe far morire sul nascere ogni e qualsiasi possibilità di dialogo.

 

2.4.      Dobbiamo ritornare a Emmaus e imparare da Gesù. È sulla strada che egli incontra i due discepoli, sconfortati e delusi. Non a Gerusalemme. E su quella strada a loro si accompagna. È un’indicazione preziosa quella attraverso tutto il vostro piano pastorale. Andare incontro agli uomini là dove vivono, incontrarli sulle loro strade, camminare al loro fianco e con essi trattenersi. Non comporta forse un uscire dal silenzio dal tempio, dalla protezione che esso potrebbe assicurare, e magari correre il rischio di mancata accoglienza o di incomprensione? Non è questo il tempo di una Chiesa impaurita, intimidita, che si chiude in se stessa, incapace di confrontarsi con la realtà di una cultura che ha cambiato il pensare e il vivere degli uomini. E, davvero, non è questa la scelta della vostra Chiesa, e, se posso accennare a qualche esperienza passata, non fu nemmeno quella della Chiesa che è in Trieste.

 

M’è parsa suggestiva l’esortazione che, ispirandosi alla Lettera a Diogneto, Enzo Bianchi rivolge ai credenti: “non rinneghino nulla del vangelo, ma restino in mezzo agli altri uomini con simpatia, senza separarsi da loro, solidali, tesi a costruire insieme una città più umana. Cristiani che sappiano vivere come amici di tutti gli uomini, senza cadere preda dell’angoscia o della paura di essere minoranza, vero lievito e sale nella pasta del mondo” (BIANCHI E., La differenza cristiana, Einaudi 2006, p.9).

 

 

3.         Alcuni ambiti del dialogo

 

Uscire dal tempio fu non solo un appello raccolto, ma una esigenza sempre più avvertita, a cui diedero valore di orientamento pastorale e linee operative le conclusioni del Convegno ecclesiale La Chiesa di Trieste tra storia e profezia, celebrato nel 2003, dopo una preparazione nei decanati e nelle aggregazioni ecclesiali durata due anni, da cui furono determinati i temi dei successivi anni pastorali. Uscire allo scoperto, nella città, ma privilegiando quali ambiti? Tra essi trovo quelli che oggi vedo scelti, tra gli altri proposti, dalla maggioranza delle vostre parrocchie: giovani, famiglie, immigrati, pur senza esclusione di altri.  

 

3.1.      Sapevamo che i giovani vanno raggiunti, non attesi. Uscire dal tempio per noi significò allora uscire dalla pastorale tradizionale dell’accoglienza per andare incontro a loro là dove si potevano incontrare nei luoghi dello studio e del lavoro. Lo affermava con chiarezza il documento della Commissione per la pastorale giovanile del Triveneto presentato all’Agorà di Aquileia il 31 maggio 2009: “è urgente uscire dalle sale ‘nostre’ verso gli ambienti laici, nuovo areopaghi, primariamente le università… (occorre) andare incontro ai giovani… è opportuno formare all’evangelizzazione nei luoghi di vita e di lavoro, abitare cristianamente quelli che altrimenti sono ‘non luoghi’” (Sentinella, quanto resta della notte, strumento di lavoro per una lettura della realtà giovanile nel Triveneto in vista di una nuova progettazione pastorale, p.27).

 

Compito che non poteva essere affidato se non ad altri giovani che parlassero il loro linguaggio e vivessero in quegli ambienti con giovanile entusiasmo la testimonianza della loro fede. Se ne fecero carico alcune associazioni e movimenti. Ma qualche anno dopo ci sembrò che una successiva azione pastorale non potesse prescindere da una indagine socio-religiosa che ci desse una conoscenza della realtà giovanile dal punto di vista della religiosità. Fu affidata all’Osservatorio socio-religioso del triveneto che già aveva svolto analoga indagine di Venezia e di Concordia-Pordenone di cui è stato reso pubblico l’esito Religione in stand by (Marcianum press, Venezia 2008).

 

3.2.      L’attenzione alla famiglia è stata sempre avvertita come una grave emergenza pastorale. Quasi due anni sono stati dedicati alla riflessone e alle proposte su tale tema, come richiesto dalle indicazioni prioritarie del Convegno ecclesiale del 2003, a cominciare dalla responsabilità di una seria formazione dei giovani alla famiglia. Ma un altro problema, già esistente, che purtroppo è andato aggravandosi nel tempo ed è motivo di preoccupata riflessione, è quello del fenomeno crescente delle separazioni e dei divorzi, delle famiglie di divorziati risposati, delle famiglie di fatto e delle convivenze giovanili sempre più numerose.

 

Vi sono per alcuni casi chiare indicazioni pastorali a cui è doveroso attenersi. Ma non può venir meno per noi per noi il dovere di non lasciar sole queste persone che, per la loro scelta, vivono ai margini della comunità cristiana. Ne ho sofferto, e ne soffro ancora anch’io, che pur non potendo giustificare né sanare situazioni irreversibili, non ho mai negato a chi le stava vivendo i segni del rispetto e per molti quelli dell’amicizia. Ho letto con vivo interesse quanto si fa e si propone nella vostra diocesi e quanto nel vostro piano pastorale viene proposto per quest’anno. Credo rientri certamente nel comprendere, accogliere e creare reti di amicizia e di fraternità con coloro che vivono situazioni familiari difficili e sofferte. Tale invito del vostro piano pastorale è segno rivelatore di una viva sensibilità pastorale e di autentica umanità.

 

3.3       Un problema nuovo e di notevole dimensioni s’è aperto con gli immigrati. Oggi l’accoglienza non sembra facile né a renderla tale pare contribuisca una mentalità abbastanza diffusa e forse sostenuta da paure e pregiudizi, mentre insufficiente è la disponibilità delle istituzioni civili. È certo un dovere far maturare nella comunità (e non solo in quella ecclesiale) un’autentica cultura dell’accoglienza e so che al progressivo formarsi di essa ha dato un serio contributo la stessa Caritas diocesana, la Fondazione e l’Ufficio ecumenico, promuovendo una sensibilizzazione della comunità e impegnando a realizzare gesti concreti di fraterna solidarietà. Si dovrà continuare nell’atteggiamento intelligente e generoso di un’accoglienza che riconosca e tuteli la dignità degli immigrati e ne favorisca l’inserimento nel lavoro e nella società, nella vita stessa della città. Ma qui si pone la necessità di un dialogo ecumenico e interreligioso, perché a religioni diverse appartengono coloro che qui vengono a cercare rifugio e pace. Per la mia città, poi, si trattava di non oscurare quell’accoglienza che fu nel passato una nota positiva della sua stessa storia.

 

3.4.      E qui si apre un problema di dialogo ecumenico ed interreligioso, perché il fenomeno dell’immigrazione, porta tra noi dall’Est europeo e dai paesi dei Balcani, ortodossi e islamici nonché appartenenti a religioni diverse.

 

Ho letto con vivo interesse e, sinceramente, con ammirazione quanto il vostro piano pastorale dice a tale proposito. Conoscevo la sensibilità ecumenica e l’intelligente e generosa apertura della vostra Chiesa. E alla saggezza delle indicazioni pastorali che vi vengono offerte volentieri vi rimando. Voglio però dire un grazie a chi ha preparato il vademecum pastorale Persone Fedi Religioni: è una guida sicura al dialogo e, nello stesso tempo, uno stimolo a renderlo sempre più vivo, anche seguendo la pastorale delle piccole cose. E proprio mentre stavo stendendo questa relazione mi è pervenuto – con la consueta cortese amicizia – il sussidio preparato e appena diffuso dalla vostra Commissione per il Dialogo ecumenico e interreligioso. Un documento notevole, non solo per la competenza dottrinale, ma per la conoscenza delle situazioni locali, che si rivelerà di valido aiuto nelle diverse realtà pastorali.

 

Vi chiedo scusa se, quasi una parentesi, faccio ancora una volta cenno a Trieste. Me lo consente, forse, l’avermi detto che “alcuni tratti della mia esperienza pastorale potrebbero essere utili”, ma forse me lo suggerisce pure la storia della mia città che fu sempre luogo di accoglienza di genti diverse per lingua, cultura, religione. L’abbiamo ricordato lo scorso anno, proprio a settembre, nella Giornata europea della Cultura ebraica, che aveva come tema “Accogliere e conoscere l’altro”. Una città che nel suo divenire lungo i secoli accolse ebrei fin dal lontano 1200 e, dal ‘700 in poi, greci, serbi, serbi ortodossi, evangelici luterani e valdesi e, successivamente, altre confessioni ancora. Si viveva insieme senza parlarsi, si viveva fianco a fianco, si intessevano amicizie personali che superavano la diversa confessione religiosa, si andavano formando famiglie miste che, come avevano trovato difficoltà a nascere, così ne dovettero affrontare delle nuove negli anni della loro vita familiare. Era una città in cui gli uni vivevano accanto agli altri senza parlarsi. Al 1967 risale l’iniziative del primo contatto dei cattolici con le altre confessioni cristiane, successivamente con la Comunità Ebraica. Ricordo quell’anno con qualche trepidazione perché mi fu affidato il primo contatto, che se fu cordiale con gli ortodossi, conobbe qualche difficoltà con i fratelli evangelici. Ora il dialogo aperto e fraterno continua, con alterne vicende, sulle basi di una ritrovata disponibilità all’incontro e al dialogo, a partecipare insieme celebrazioni comuni di preghiera e celebrazioni liturgiche delle diverse Chiese, anche se una piena comunione è ancora lontana e la sostiene la speranza che non viene mai meno. Un gruppo interconfessionale, esteso anche al dialogo interreligioso, è prezioso per l’approfondimento di alcuni temi, certo, ma ancor prima per una conoscenza da cui nascano e si consolidino stima ed amicizia.

 

Un accenno appena agli immigrati islamici. È indubbiamente d’aiuto il rapporto cordiale con i responsabili del Centro islamico, certamente utili gli incontri per la reciproca conoscenza delle diverse culture, anche se un dialogo è più facile con coloro che appartengono ad una classe colta e meno con altri di condizione inferiore. Appare delicata e spesso di difficile soluzione la questione dei matrimoni misti e dell’educazione dei figli.

 

 

4.         Per una Chiesa che sa dialogare

 

4.1.      Voi volete essere Chiesa che sa dialogare. Come si può esserlo? Mi sono diffuso nel raccontarvi un’esperienza di Chiesa che fu ed è ancora la mia, che anch’essa s’è chiesta come dialogare. Con una cultura che ancora la interpella – ed è indubbiamente il caso vostro e nostro – come con quella che ritiene di bastare a se stessa e di non aver alcun bisogno di un messaggio religioso.

 

Avete voluto individuare i destinatari del vostro dialogo in coloro che dalla vita ecclesiale si sono allontanati oppure ne sono lontani per situazioni personali difficili e delicate. So che volete cercate le vie di un dialogo che rispettosamente sia sostegno alle famiglie nella loro unità nell’amore e nella loro opera educativa. So che volete dialogare con i giovani perché maturino scelte sagge e responsabili e con quanti qui sono venuti a cercare e chiedere accoglienza e a cercare lavoro e pane e con coloro che vivono ai margini della comunità ecclesiale per situazioni personali difficili e delicate.

 

Come essere Chiesa che sa dialogare? Ve lo indicano con chiarezza e con proposte concrete le linee del Piano pastorale che tra poco vi sarà presentato e che il vostro Arcivescovo a tutti voi oggi consegna. Ma so che non potrebbe farlo se non uscendo da tempio e camminando incontro ad ogni uomo, aprendosi alla conoscenza di lui, accogliendolo nella propria e vita e comprendendolo nelle sue ricchezze e nelle sue povertà, nella sua sofferenza e nelle sue attese, nelle diverse dimensioni della sua esperienza spirituale ed umana.

 

4.2.      Sì, siete voi, fratelli e sorelle, questa Chiesa che vuol raggiungere l’uomo sulle sue strade e a lui accompagnarvi, come Gesù fece con i discepoli di Emmaus. E desiderate che, lungo il cammino la simpatia che si apre all’ascolto e il racconto delle vostre semplici parole riaccendano la speranza nell’animo di colui del quale condividerete i passi, come fu per i due viandanti di Emmaus.

 

Vi sarà una presenza amica da offrire, vi sarà una risposta da dare a chi vi chiedesse ragione della speranza che è in voi. E la darete – come insegna l’apostolo Pietro – “con dolcezza e rispetto” (cfr 1Pt, 3, 15), perché non sembri mai far emergere la povertà spirituale dell’altro ma, al contrario, lo possa arricchire di certezze che non deludono. E lo farete certo – come scrive il vostro Arcivescovo – “con intelligenza, umiltà e cuore” e con quella carità che lo Spirito di Dio ha diffuso nei nostri cuori perché abbia calore d’affetto l’abbraccio con cui accoglierete ogni uomo come un fratello e, con lui, la sua stessa vita.

 

            Oggi anch’io prego con voi: “Vieni, Spirito santo, liberaci dalla paura dell’incontro con l’altro e unisci i progetti, le scelte i desideri perché la vita delle nostre comunità sia segno e non ostacolo per la tua opera nel mondo.”

 

*******