La TUa opera è UN BENE PER TUTTI (di Julián Carrón 2009.11 alla assemblea CDO)
vedi anche «TU sei un bene per ME», Meeting2016
[Pagina senza pretese di esaustività o imparzialità, modificata 02/03/2019; col colore grigio distinguo i miei commenti rispetto al testo attinto da altri]
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↑2019.11.23 <cl> La Pagina Uno di Tracce di dicembre 2009 con gli appunti dall’intervento all’Assemblea generale della Compagnia delle Opere. Assago, 22 novembre 2009
1. Forse mai come in questi tempi di crisi ci rendiamo conto della verità del motto che avete scelto come tema del vostro incontro annuale: «La tua opera è un bene per tutti». E meglio di tutti lo possono capire coloro che sono più colpiti dalla crisi, le loro famiglie, i loro figli.
Ma cercare di tenere in piedi un’opera in questi tempi è veramente una cosa ardua. Voi lo sapete bene, voi che vi dibattete tra continuare a costruire questo bene o gettare la spugna, chiudendo i battenti. La tentazione dell’individualismo è sempre in agguato. L’insidia del si-salvi-chi-può è più forte che mai.
Per tanti di voi sarebbe più comodo. Vi risparmiereste non poche preoccupazioni. Eppure non vi siete chiusi in voi stessi, dimenticando gli altri. In questo modo avete vinto l’individualismo di cui parlava Bernhard Scholz. Ma siccome la tentazione permane, per potere resistere occorre avere delle ragioni che ce lo consentano. Questo vuole essere lo scopo del mio contributo. Paradossalmente, la crisi può diventare un’occasione per mettere delle fondamenta più salde all’opera che state costruendo, guadagnando più consapevolezza delle ragioni sottese.
2. L’individualismo è un tentativo di risolvere i problemi vecchio come l’uomo, implicando il rapporto tra il proprio bene e il bene altrui, la tensione tra io e comunità. Il fatto di non vivere da soli, bensì di essere sempre all’interno di una comunità, ci costringe a decidere in continuazione il modo di affrontare questo paradosso.
Noi siamo chiamati a vivere questa sfida in un contesto culturale in cui la risposta a questa tensione sembra palese: l’individualismo. Detto con una frase: io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri. Di più: l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della propria felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus.
Ma dicendo così la modernità si mostra incapace di dare una risposta esauriente, vale a dire che contempli tutti i fattori in gioco. Infatti la concezione individualista risolve il problema cancellando uno dei poli della tensione. E una soluzione che deve eliminare uno dei fattori in gioco, semplicemente, non è una vera soluzione.
Fino a quale punto questa impostazione è sbagliata si vede dal fatto, emerso clamorosamente, della sempre più urgentemente sentita richiesta di regole. Quanto più l’altro è concepito come un potenziale nemico, tanto più viene a galla la necessità d’un intervento dall’esterno per gestire i conflitti. Questo è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole per mettere sotto controllo il “lupo” che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi.
Questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri.
Ma non è tanto l’incapacità delle regole a costituire il problema. La vera questione è che l’individualismo è fondato su un errore madornale: pensare che la felicità corrisponda all’accumulo. In questo la modernità dimostra ancora una volta la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo, di quella sproporzione strutturale di leopardiana memoria. Per questo l’individualismo, ancor più che sbagliato, è inutile per risolvere il dramma dell’uomo.
Inoltre occorrerebbe aggiungere anche un ulteriore inganno, proclamato dal potere dominante: che si possa essere felici a prescindere dagli altri.
3. Per rispondere adeguatamente al nostro problema, il punto di partenza è l’esperienza elementare, che ciascuno di noi può lealmente rintracciare in sé: «Ogni uomo di buona volontà, di fronte al dolore e al bisogno, immediatamente si mette in azione, si mostra capace di generosità» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, Bur, Milano 2003, p. 81).
Ma questo naturale sentimento di generosità non ha possibilità di durata senza ragioni adeguate: «La solidarietà è una caratteristica istintiva della natura dell’uomo (poco o tanto); essa tuttavia non fa storia, non crea opera fin tanto che rimane un’emozione o una risposta reattiva a un’emozione; e un’emozione non costruisce» (Ibidem, pp. 82-83).
Come sostenere questa esperienza elementare davanti al bisogno? È la domanda che si faceva anni fa don Luigi Giussani in un’assemblea come quella di oggi: «Come è possibile che l’uomo sostenga questo “cuore” di fronte al cosmo e, soprattutto, di fronte alla società? Come può fare l’uomo a sostenersi in una positività e in un ultimo ottimismo (perché senza ottimismo non si può agire)? La risposta è: non da solo, ma coinvolgendo con sé altri. Stabilendo un’amicizia operativa (convivenza o compagnia o movimento): cioè una più copiosa associazione di energie basata su un riconoscimento reciproco. Questa compagnia è tanto più consistente quanto più il motivo per cui nasce è permanente e stabile. Un’amicizia che nasca da un cointeresse economico ha la durata del giudizio circa la sua utilità. Invece una compagnia, un movimento, che sorga dall’intuizione che lo scopo di un’impresa eccede i termini dell’impresa stessa, e che essa è tentativo di rispondere a qualche cosa di molto più grande; insomma, un movimento che nasca dalla percezione di quel cuore che abbiamo in comune e che ci definisce come uomini, stabilisce una “appartenenza”» (Ibidem, pp. 88-89).
Questa esperienza elementare mostra che l’altro è percepito come un bene, tanto è vero che si mette in moto la solidarietà, fino al punto di generare un popolo che risponda al bisogno. Per questo sentiamo il bisogno di metterci insieme per essere sostenuti nel nostro impeto iniziale. Questa posizione ha permesso a molti di tenere, più di tanti proclami vuoti.
L’appartenenza nell’aiuto all’esperienza elementare è anche metodo per correggere l’inevitabile e continua riduzione della stessa esperienza elementare nel vivere e nell’azione. Non siamo ingenui o utopisticamente ottimisti alla Rousseau. Conosciamo bene il nostro limite, il peccato personale e sociale, per questo - come dice don Giussani nel discorso di Assago del 1987 (in L’io, il potere, le opere, Marietti, Genova 2000, pp. 165-170) - l’appartenenza a movimenti corregge continuamente chi vi partecipa da questa caduta educando continuamente al bello, al vero, al giusto. Invece dello stato di polizia, l’educazione in un’appartenenza.
Ma in tempo di crisi neanche questa tensione ideale e amicizia operativa possono resistere alla tentazione dell’individualismo, se non trovano una ragione adeguata. Dobbiamo, infatti, avere sempre chiaro l’equivoco nel quale troppo spesso incorriamo: quello di sostituire un’amicizia, nata per sostenere il cammino dell’io, con un progetto di successo egemonico che passa attraverso il potere politico-sociale. Questo non è in grado di tenere davanti alle bufere della vita.
Perciò la situazione attuale si trasforma in una occasione privilegiata per maturare la coscienza del perché stare insieme. Per chiarire la ragione che possa resistere a qualsiasi tsunami.
4. Senza ragione adeguata, non c’è possibilità di resistere e, quindi, di costruire qualcosa con prospettiva di durata. Solo qualcosa che è più consistente di qualsiasi eventualità può essere fondamento adeguato per costruire. Quale?
Per rispondere a questa domanda, permettetemi una confidenza personale. Ogni anno devo parlare con coloro che, dopo anni di noviziato, chiedono l’ammissione definitiva alla associazione Memores Domini. In quest’occasione, mi viene da domandarmi: tra tanti particolari di cui è fatta la vita, che cosa devo guardare per aiutarli a capire se è ragionevole o meno fare questo passo così decisivo nella loro vita? Siccome non so come il Mistero li porterà al destino, per quali situazioni o circostanze il Signore li farà passare, l’unica garanzia che consentirà loro di affrontare qualsiasi eventualità è che ciascuno abbia fatto un’esperienza che, capiti quel che capiti, non possano togliersela di dosso. Un’esperienza che possa sostenere la vita tutta, appunto. E mi viene alla mente una frase di san Tommaso, familiare a tanti di voi, che esprime sinteticamente la chiave della questione: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (Summa Theologiae, II-II, q. 179, a. 1). Soltanto un affetto in cui uno abbia trovato la più grande soddisfazione può sostenere la vita tutta.
Può esistere un affetto così? C’è un affetto che corrisponda così tanto alla nostra attesa da potere diventare fondamento in grado di resistere in qualsiasi battaglia? O, espresso con altre parole più puntuali per questa occasione di oggi: c’è un affetto più soddisfacente di qualsiasi individualismo?
Siccome l’uomo è esigenza di totalità, soltanto qualcosa di totale può corrispondere a tale esigenza. Solo un uomo nella storia ha avuto tale pretesa: Gesù di Nazareth, il Mistero diventato carne. Solo chi ha avuto la grazia d’incontrare un dono così, può capire cos’è quella soddisfazione che consente di sostenere tutta la vita. Diventa possibile non cedere all’individualismo, soltanto se abbiamo ricevuto un bene così incommensurabile.
Questo è il realismo cristiano: «Se Dio, infatti, non fosse diventato uomo, nessuno avrebbe potuto impostare la propria vita secondo questa gratuità, nessuno di noi avrebbe osato guardare la propria vita secondo questa generosità» (L. Giussani, L’io, il potere, le opere, op. cit., p. 132).
Così si capisce bene l’inizio della recente enciclica del Papa: «La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s’è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera» (Benedetto XVI, Caritas in veritate, 1).
Perché? Perché «dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza» (Ibidem, 2).
È questa carità sterminata di Dio nei nostri confronti, più soddisfacente che nessuna ipotesi di individualismo, che ci rende a nostra volta soggetti di carità: «Destinatari dell’amore di Dio, gli uomini sono costituiti soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere la carità di Dio e per tessere reti di carità» (Ibidem, 5).
Dalla sovrabbondanza della carità, dalla pienezza dell’amore di cui siamo stati oggetto, può scaturire la gratuità. Non da una mancanza, bensì da una sovrabbondanza!
«È la verità originaria dell’amore di Dio, grazia a noi donata, che apre la nostra vita al dono e rende possibile sperare in uno “sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”, in un passaggio “da condizioni meno umane a condizioni più umane”, ottenuto vincendo le difficoltà che inevitabilmente si incontrano lungo il cammino» (Ibidem, 8).
Senza questo non possiamo continuare a costruire a lungo. Don Giussani, venticinque anni fa, a un gruppo di universitari diceva che «noi non possiamo continuare a essere così attivi e produrre quello che abbiamo prodotto in questi anni feroci senza la comunione, ma la comunione senza Cristo non sta in piedi, la ragione della comunione è Cristo, e infatti è solo il pensiero di Cristo, il rapporto con Cristo che genera quella condizione per la quale posso rimanere nella compagnia senza sentirmi alienato, cioè l’amore a me stesso, l’amore agli altri come riverbero dell’amore a me stesso. Così dico che non si può rimanere nell’amore a se stessi senza che Cristo sia una presenza come è una presenza una madre per il bambino [...], se Lui non è presenza, se non ha vinto la morte, cioè se non è risorto, e perciò se non è il dominatore della storia – per cui il tempo non lo ferma, lo spazio e il tempo non lo delimitano –, se non ha in mano la storia, se non è il Signore del tempo e dello spazio, se non è il Signore della storia, se non è mio come lo fu di Giovanni duemila anni fa, se Tu non sei presenza reale a me, o Cristo, io torno a essere niente. Perciò, il riconoscimento della Tua presenza, il riconoscimento continuo della Tua presenza, questo è il cambiamento che mi occorre. La conversione è come uno che va, come se io stessi andando con tanti bei pensieri dedotti da Lui e a un certo punto mi voltassi (conversio) e Lo vedessi presente. È tutto diverso, il cammino diventa tutto diverso. La giustizia è questa fede e la fede è riconoscimento di questa Presenza. Cristo è risorto, cioè Cristo è contemporaneo al tempo, è contemporaneo alla storia. Ora, il cambiamento profondo che implica il nuovo soggetto, la creatura nuova, è questo: è la fede in Cristo crocifisso e risorto, dove il “crocifisso” è la condizione per essere risorto. Perciò io non potrò scandalizzarmi se la condizione per vivere la gioia che Lui mi ha promesso è la croce, anzi, qui sarà la dimostrazione affascinante che perfino il dolore e la croce e la morte diventano gioia. Come dice san Paolo, “io sono pieno di gioia, sovrabbondo di gioia nella mia tribolazione”: è inconcepibile umanamente, cioè è un altro essere, è un altro mondo che è presente e che dobbiamo, nella nostra povertà, riconoscere, riconoscere sempre più fortemente, così che diventi sempre più abituale, familiare, perché la nostra presenza nel mondo sia sempre più redentiva, cioè sia sempre più umanizzante noi stessi e gli altri» (L. Giussani, Qui e ora (1984-1985), Bur, Milano 2009, pp. 76-78).
Detto in altro modo, «per potere amare se stessi, per potere operare tanto, bisogna essere insieme; per potere essere insieme bisogna riconoscere un amore a sé che permetta di amare anche gli altri, e quindi che operi il cambiamento grande che è l’amore alla gente e a se stessi considerati come rapporto al destino; ma questo non è possibile se non per una Presenza, non è possibile se Cristo [...] non è risorto, cioè non è contemporaneo. Allora, riconoscere questo contemporaneo, questa presenza al mio gesto, questa compagnia al mio cammino, è il primo fondamentale gesto di libertà che permette tutti gli altri, anzi, che permette e incita tutti gli altri» (Ibidem, pp. 82-83).
Un’esperienza così può superare definitivamente l’individualismo: il noi entra nella definizione dell’io.
È per questo che, allora, possiamo imitare Dio. Non perché siamo bravi, ma perché siamo da Lui preferiti: «Nei nostri propositi e nei nostri progetti noi teniamo conto di tutto quello che occorre per realizzarli, realisticamente. Ma, oltre questo, noi dobbiamo realizzare, o cercare di realizzare, a imitazione del Signore, una emozione che non rientra nei calcoli per sistemare le cose, ma che direttamente nasce e si rivolge al compagno uomo, in amicizia, gratuitamente. Si chiama carità. Gratuitamente aiutare il proprio vicino, un uomo, a risolvere e a rispondere al bisogno che ha, di qualunque natura esso sia: da quello del pane fino a quello dell’anima. Risolvere, o aiutare a risolvere, il bisogno per il quale un uomo piange e soffre. Tener presente questa carità è giudicato una follia da chi ci sta attorno nel mondo di oggi. Dicono: “Sì, questo è idealismo”, il che è uguale, nel loro linguaggio, a dire: “È una pazzia. Sei fuori di te. Guarda piuttosto quello che devi fare! Lascia stare questa sovrabbondanza che può alterare l’esito del tuo operato”. Se siete qui, è perché nel vostro impegno di lavoro, nel vostro impegno organizzativo, nella vostra realtà di conoscenza e nella vostra compagnia avete trovato motivo d’azione, al di là di quello che dovete fare e realizzare, in una gratuità che non può essere calcolata e non dà luogo a calcolo. Solo Dio è al di là di ogni possibilità di calcolo. Perciò, il vostro lavoro è e deve tendere a essere imitazione di Dio o, meglio, imitazione di Cristo» (L. Giussani, L’avvenimento cristiano, op. cit., p. 120).
Questa imitazione di Dio non è qualcosa che possiamo fare con le nostre energie. C’è la possibilità di imitare Dio perché Lui stesso ci dona quella carità con cui possiamo imitarLo. Per questo «la carità è un fattore che contesta e penetra tutti gli altri fattori, la carità è più grande di tutto. Essa genera un popolo che non può sorgere se non da qualcosa di gratuito. Calcoli ben fatti non possono erigere il fenomeno più alto dell’espressione umana che è la realtà di un popolo. […] Tra di noi è nato un popolo per una gratuità che imita, che cerca di imitare la sovrabbondanza e la grazia con cui Cristo è venuto ed è rimasto tra di noi. L’estrema convenienza della vita, infatti, è la gratuità fatta penetrare negli interstizi dei nostri calcoli» (Ibidem, p. 121).
Che la gratuità penetri negli interstizi dei nostri calcoli deve essere sempre davanti a noi come ideale, come tensione da avere. Perché noi, essendo tutti peccatori, non siamo per niente esenti dal decadere della gratuità e finire nel puro calcolo, pensando che siamo preservati solo perché apparteniamo a una amicizia come la nostra. Il rischio, e non solo, di arroccarsi in una difesa corporativa di ciò che facciamo, magari con dentro un progetto di egemonia politica, è sempre in agguato. Che la gratuità sia l’estrema convenienza significa una gara nel cercare il bene che passa per il rispetto delle leggi, ma che fa di questa gratuità affezione, costruzione per il bene comune, correzione senza reticenze di fronte alla continua caduta.
Allora si richiarisce ancora una volta il nostro autentico scopo: non crescere in dimensione e potere, bensì che le vostre opere siano esempi di una diversità che la gente vede e da cui è colpita, perché questa diversità testimonia Qualcun altro. Questa è la risposta al degenerare continuo della vita pubblica. Questa è la moralità di cui il nostro Paese ha bisogno.